leggi la sentenza LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente - Dott. DI SALVO Emanuele - rel. Consigliere - Dott. NARDIN Maura - Consigliere - Dott. BRUNO Mariarosaria - Consigliere - Dott. PAVICH Giuseppe - Consigliere - ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: H.J.N., nato il (OMISSIS); avverso la sentenza del 12/04/2018 della CORTE APPELLO di VENEZIA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. DI SALVO EMANUELE; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. ORSI LUIGI; Il Proc. Gen. conclude per l'inammissibilità; udito il difensore; E' presente come sostituto processuale con delega depositata in aula l'avv. DE VICO RAFFAELLA foro ROMA dell'avvocato DI GENNARO STELLA STEFANO del foro di FERRARA in difesa di: H.J.H.; il difensore presente si riporta ai motivi.
Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. H.J.H. ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, con la quale è stata confermata, in punto di responsabilità, la pronuncia di condanna emessa in primo grado, in ordine al reato di cui all’art. 590 c.p. perchè, quale medico dentista che, in data (OMISSIS), eseguì l’intervento di estrazione di un elemento dentario nei confronti di D.S., omettendo ulteriori approfondimenti radiografici volti alla più accurata definizione dell’anatomia del sito operatorio, dopo che l’ortopantomografia del 23/9/2011 aveva evidenziato stretti rapporti di contiguità tra l’apparato radicolare del dente e le strutture del canale mandibolare, procedendo ad una immotivata ed estesa demolizione del tessuto osseo coricale linguale e vestibolare, nella regione dell’elemento 38, interessando in profondità il canale mandibolare, struttura che alloga il nervo alveolare inferiore, per demolizione di parte del tetto osseo del canale, cagionava alla D. la lesione irreversibile del nervo linguale.
2. Il ricorrente deduce tardività della querela, presentata soltanto il 18 gennaio 2013, nonostante la persona offesa fosse a conoscenza già da epoca assai risalente delle lesioni subite e del nesso di causalità tra queste ultime e l’operato del dentista e si fosse sottoposta a visita specialistica al solo fine di stabilire la gravità delle lesioni riportate.
2.1. Ingiustificatamente è stata rigettata la richiesta di espletamento di perizia medico-legale, ex art. 507 c.p.p., essendo stata prodotta dalla persona offesa una consulenza medico-legale risalente nel tempo e carente sotto il profilo valutativo. Non è stato, infatti, appurato se e in che misura vi sia stato consenso all’atto sanitario; quali fossero le specifiche linee-guida o le buone pratiche clinico-assistenziali cui l’imputato non si sarebbe attenuto, anche in considerazione del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico eseguito; se le cautele adottate dall’imputato fossero ordinariamente attuate in casi come quello in esame; quali siano le percentuali indicate dalla letteratura medica in ordine al verificarsi di possibili complicanze dell’intervento; se ed in che misura vi sia stato un miglioramento nel tempo delle condizioni di salute della persona offesa, come è pacifico. I giudici di merito si sono basati esclusivamente sulle dichiarazioni della persona offesa, fondate su suggestioni personali e psicologiche e su interpretazioni soggettive, nonchè sulla consulenza effettuata, su incarico della parte civile, sulla base di documentazione radiografica risalente e di un semplice colloquio anamnestico svoltosi con la persona offesa, senza alcun accertamento di natura tecnica. Del resto, lo stesso consulente della parte civile, che ha ammesso di non ricordare nulla in merito alla consulenza espletata e si è espresso in termini di mera verosimiglianza e in modo contraddittorio, ha affermato che si trattava di un intervento notevolmente complesso, tanto più che la paziente non riusciva a tenere aperta la bocca. Nè il consulente, che sembra essersi basato più su cognizioni teoriche generali che sulla conoscenza del caso concreto, ha saputo specificare quale sia stato il contenuto dell’informazione sui rischi connessi all’intervento fornita dal ricorrente alla paziente.
2.2. Trattasi, comunque, a tutto voler concedere, di colpa lieve, nell’ottica delineata dall’art. 590 sexies c.p., poichè il ricorrente svolge attività da quasi trent’anni e ha avuto in cura la paziente per circa 10 anni senza alcun problema; ha visionato ben due ortopantomografie prima di effettuare l’intervento e non è stato dimostrato che egli non avrebbe dovuto procedere alla demolizione del dente incluso nel tessuto osseo.
Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata.DirittoCONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è infondato. Infatti, il termine per proporre la querela per il reato di lesioni colpose determinate da responsabilità del sanitario inizia a decorrere non già dal momento in cui la persona offesa ha avuto consapevolezza della patologia contratta bensì da quello, eventualmente successivo, in cui il soggetto passivo sia venuto a conoscenza della possibilità che sulla menzionata patologia abbiano influito errori diagnostici o terapeutici dei sanitari che l’hanno curata (Cass., Sez. 4, n. 17592 del 7/4/2010, Rv. 247096; Sez. 4, n. 13939 del 30/1/2008, Rv. 239255). Nel caso in esame, risulta dalla querela, allegata al ricorso, che la persona offesa si rese conto soltanto in data 23 ottobre 2012 della correlabilità delle lesioni subite all’intervento odontoiatrico effettuato dal Dott. H., dopo essersi sottoposta ad accertamento specialistico odontostomatologico-medico-legale ed essere venuta in possesso del relativo elaborato peritale. Nè il ricorrente offre elementi a smentita di tale asserto, limitandosi ad affermare apoditticamente che la persona offesa era a conoscenza delle lesioni subite e del nesso di causalità tra queste ultime e l’operato del medico già in epoca antecedente e che ella si sottopose a visita specialistica al solo fine di stabilire la gravità delle lesioni riportate, senza corroborare tale assunto con argomentazioni di adeguato spessore logico e fattuale. E comunque una eventuale situazione di incertezza deve essere considerata in favore del querelante (Cass., Sez. 5, n. 40262 del 19/9/2008, Rv. 241737), dovendosi ritenere tempestiva la proposizione della condizione di procedibilità, poichè il decorso del termine di cui all’art. 124 c.p. importa decadenza e le decadenze vanno accertate secondo criteri rigorosi, non potendo ritenersi intervenute in base a semplici supposizioni, prive di adeguato supporto probatorio (Cass. Sez. 1, n. 7333 del 28/1/2008).
2. Il secondo motivo di ricorso è invece fondato. L’art. 220 c.p.p. prevede l’espletamento della perizia ogniqualvolta sia necessario svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedano specifiche competenze di natura tecnica. La specificità delle competenze va rapportata alle conoscenze ordinarie dell’uomo medio. La perizia va dunque disposta allorchè occorrano competenze che esulano dal patrimonio conoscitivo dell’uomo medio, in un dato momento storico e in un dato contesto sociale (Cass., Sez. 1, n. 11706 dell’11/11/1993, Rv. 196075). Lo svolgimento di indagini comprende la ricerca e l’estrapolazione di dati da una determinata realtà fenomenica nonchè la loro analisi e rielaborazione critica. L’acquisizione di dati implica la constatazione, selezione e organizzazione di dati già esistenti, in modo funzionale rispetto alle richieste del giudice. L’acquisizione di valutazioni comprende l’individuazione ed enunciazione di nozioni e di regole tecniche, di leggi scientifiche, di massime di esperienza e di inferenze fondate su dati già acquisiti mediante altri mezzi di prova o direttamente ottenuti attraverso le operazioni peritali. Dunque la perizia, pur essendo rimessa ad una valutazione discrezionale del giudice (Cass., Sez. 6, n. 34089 del 7/7/2003; Sez. 5, n. 22770 del 15/4/2004), rappresenta un indispensabile strumento probatorio, allorchè si accerti il ricorrere del presupposto inerente alla specificità delle competenze occorrenti per l’acquisizione e la valutazione di dati, perfino laddove il giudice possieda le specifiche conoscenze dell’esperto, perchè l’eventuale impiego, ad opera del giudicante, della sua scienza privata costituirebbe una violazione del principio del contraddittorio e del diritto delle parti sia di vedere applicato un metodo scientifico sia di interloquire sulla validità dello stesso (Cass., Sez. 5, n. 9047 del 15/6/1999, Rv. 214295). L’ontologica terzietà del sapere scientifico accreditato è lo strumento a disposizione del giudice e delle parti per conferire oggettività e concretezza al precetto e al giudizio di rimprovero personale. E’ ben vero infatti che al giudice è attribuito il ruolo di peritus peritorum. Ma ciò non lo autorizza affatto ad intraprendere un percorso avulso dal sapere scientifico, avventurandosi in opinabili valutazioni personali, sostituendosi agli esperti e ignorando ogni contributo conoscitivo di matrice tecnico-scientifica. Il ruolo di peritus peritorum abilita invece il giudice a individuare, con l’aiuto dell’esperto, il sapere accreditato che può orientare la decisione e a farne un uso oculato, pervenendo a una spiegazione razionale dell’evento. Il perito non è l’arbitro che decide il processo ma l’esperto che espone al giudice il quadro del sapere scientifico nell’ambito fenomenologico al quale attiene il giudizio, spiegando quale sia lo stato del dibattito, nel caso in cui vi sia incertezza sull’affidabilità degli enunciati a cui è possibile addivenire, sulla base delle conoscenze scientifiche e tecnologiche disponibili in un dato momento storico. Toccherà poi al giudice tirare le fila e valutare se si sia addivenuti a una spiegazione dell’eziologia dell’evento e delle dinamiche in esso sfociate sufficientemente affidabile e in grado di fornire concrete, significative ed attendibili informazioni, che possano supportare adeguatamente l’argomentazione probatoria inerente allo specifico caso esaminato. Il sapere scientifico costituisce infatti un indispensabile strumento al servizio del giudice di merito, il quale dovrà però valutare l’autorità scientifica dell’esperto che trasferisce nel processo la sua conoscenza delle leggi scientifiche nonchè comprendere se gli enunciati che vengono proposti trovino comune accettazione nell’ambito della comunità scientifica (Cass., Sez. 4, n. 43796 del 17/9/2010, Rv. 248943). Il giudice deve dunque esaminare le basi fattuali sulle quali le argomentazioni del perito sono state condotte; l’ampiezza, la rigorosità e l’oggettività della ricerca; l’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica nonchè il grado di consenso che le tesi sostenute dall’esperto raccolgono nell’ambito della comunità scientifica (Cass., Sez. 4, n. 18678 del 14/3/2012, Rv. 252621), fermo rimanendo che, ai fini della ricostruzione del nesso causale, è utilizzabile anche una legge scientifica che non sia unanimemente riconosciuta, essendo sufficiente il ricorso alle acquisizioni maggiormente accolte o generalmente condivise, attesa la diffusa consapevolezza della relatività e mutabilità delle conoscenze scientifiche (Sez. U., 25/1/2005, Rv. 230317; Cass., Sez. 4, n. 36280 del 21/6/2012, Rv. 253565). Di tale indagine il giudice è chiamato a dar conto in motivazione, esplicitando le informazioni scientifiche disponibili e utilizzate e fornendo una razionale giustificazione, in modo completo e, il più possibile, comprensibile a tutti, dell’apprezzamento compiuto. Si tratta di accertamenti e valutazioni di fatto, insindacabili in cassazione, ove sorretti da congrua motivazione, poichè il giudizio di legittimità non può che incentrarsi esclusivamente sulla razionalità, completezza nonchè sul rigore metodologico del predetto apprezzamento. Il giudice di legittimità, infatti, non è giudice del sapere scientifico e non detiene proprie conoscenze privilegiate (Cass., Sez. 4, n. 1826 del 19/10/2017), di talchè esso non può, ad esempio, essere chiamato a decidere se una legge scientifica, di cui si postuli l’utilizzabilità nell’inferenza probatoria, sia o meno fondata (Cass., Sez. 4, n. 43786 del 17/9/2010, cit.) La Corte di cassazione ha invece il compito di valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare è indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni che utilizza ai fini della spiegazione del fatto (Cass., Sez. 4, n. 42128 del 30/9/2008). Il giudizio demandato alla Corte di cassazione non riguarda dunque l’attendibilità della legge scientifica ma esclusivamente la razionalità dell’apparato argomentativo a sostegno delle determinazioni del giudice di merito in ordine all’apprezzamento della validità della legge scientifica e all’utilizzo di quest’ultima nell’inferenza probatoria (Cass., Sez. 4,n 38991 del 10/6/2010, Quaglieri).
3. Nel caso in esame, l’unico supporto scientifico alla declaratoria di responsabilità è costituito dalla consulenza espletata su incarico della parte civile. Nel tessuto argomentativo della pronuncia impugnata non è dato però rinvenire un’adeguata spiegazione delle ragioni per le quali il giudice d’appello ha ritenuto l’esaustività e incontrovertibilità dei rilievi formulati dal consulente di parte civile. Nè esse sono desumibili, sia pur implicitamente, ma in modo sufficientemente chiaro, dal complesso dell’apparato giustificativo a sostegno della decisione adottata, nonostante nell’atto d’appello la questione fosse stata espressamente devoluta al giudice di secondo grado, con apposito motivo, che non può certo tacciarsi di genericità, essendo state criticate, con specifiche censure, da parte dell’appellante, le argomentazioni formulate sul punto nella motivazione della sentenza di primo grado. L’atto di gravame era, pertanto, del tutto idoneo a radicare in capo alla Corte territoriale il dovere di esaminare adeguatamente la questione relativa all’attitudine della consulenza di parte civile a fondare la declaratoria di responsabilità. Nè, dal punto di vista logico, è sufficiente l’osservazione formulata dalla Corte territoriale, secondo cui le valutazioni del consulente di parte civile sarebbero attendibili in quanto fedeli alla ricostruzione della vittima e coerenti con le conseguenze oggettive derivanti dall’intervento. Sotto il primo profilo, occorre osservare come il principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, da considerarsi un pilastro del sistema, non costituisca solo una regola di giudizio ma proietti la propria rilevanza anche sul piano della formazione della prova, imponendo l’acquisizione di materiale probatorio di fonte non unilaterale, in modo che la decisione giudiziale possa fondarsi sull’apporto dialettico di elementi dimostrativi di provenienza contrapposta o, ancor meglio, di provenienza super partes, sì da dar vita a una feconda dialettica conoscitiva e a un quadro probatorio caratterizzato da ricchezza ed affidabilità di apporti cognitivi, nel contesto del quale il giudice possa orientare in modo adeguato le proprie determinazioni. Il giudice, infatti, può fare legittimamente propria l’una piuttosto che l’altra delle tesi scientifiche prospettate dai periti d’ufficio o dai consulenti di parte, nell’ambito della dialettica processuale, purchè dia congrua ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha disatteso (Cass., n. 55005 del 10/11/2017, Pesenti) ma deve innanzitutto promuovere questa pluralità ed eterogeneità di contributi cognitivi. Viceversa, fondare la declaratoria di responsabilità sulle prospettazioni del consulente della parte civile, che si assumono corroborate dalla ricostruzione fattuale offerta dalla persona offesa, significa determinarsi all’interno di un contesto probatorio improntato all’unilateralità degli apporti conoscitivi, senza alcuna connotazione di dialetticità. Viceversa, la regola di giudizio compendiata nella formula dell'”al di là di ogni ragionevole dubbio” impone al giudicante l’adozione di un metodo dialettico di verifica dell’ipotesi accusatoria, volto a superare l’eventuale sussistenza di dubbi intrinseci a quest’ultima, derivanti, ad esempio, da autocontraddittorietà o da incapacità esplicativa, o estrinseci, in quanto connessi all’esistenza di ipotesi alternative dotate di apprezzabile verosimiglianza e razionalità (Cass., Sez. 1, n. 4111 del 24/10/2011, Rv. 251507). Può infatti addivenirsi a declaratoria di responsabilità in conformità al canone dell'”oltre il ragionevole dubbio” soltanto qualora la ricostruzione fattuale a fondamento della pronuncia giudiziale espunga dallo spettro valutativo soltanto eventualità remote, astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benchè minimo riscontro nelle risultanze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e dell’ordinaria razionalità umana (Sez. 1 n. 17921 del 3/3/2010, Rv. 247449; Sez. 1 n. 23813 del 8/5/2009, Rv. 243801; Sez. 1, n. 31456 del 21/5/2008, Rv. 240763). E, in quest’ottica, non può essere trascurato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni processualmente rilevanti, da qualunque parte provengano, esige un’accurata disamina, anche in ordine ai rapporti tra i protagonisti della vicenda sub iudice, agli interessi e ai moventi che possono aver mosso un testimone a rendere una dichiarazione di un determinato tenore e a tutte le circostanze che abbiano eventualmente influito sulla deposizione (Sez. U., 4/2/1992, Ballan). Occorre, in questa prospettiva, tener presente, in particolare, come la deposizione della persona offesa dal reato, pur potendo certamente rientrare nello spettro cognitivo e valutativo del giudice, in sede decisoria, vada riguardata con ogni cautela, considerato che la parte lesa è portatrice di un interesse contrapposto a quello dell’imputato (Cass., 13/5/1997, Di Candia, Rv. 208229). E le Sezioni unite, pur ribadendo che le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste anche da sole a fondamento della declaratoria di responsabilità dell’imputato, hanno sottolineato la necessità di una attenta verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella alla quale vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Nel caso poi in cui la persona offesa si sia costituita parte civile può essere opportuno procedere al riscontro delle sue dichiarazioni mediante altri elementi (Sez. U., n. 41461 del 19/7/2012, Bell’Arte; Rv. 253214), che non possono sostanziarsi esclusivamente in apporti probatori provenienti dalla stessa parte.
4. Quanto alla coerenza dei rilievi svolti dal consulente della parte civile con le conseguenze oggettive derivanti dall’intervento, secondo quanto evidenziato dal giudice, non può sfuggire il capovolgimento dei termini di un corretto e razionale incedere argomentativo che è insito in questa affermazione, non potendosi mai inferire il nesso eziologico fra la condotta e l’evento dalla datità e dall’atipicità delle conseguenze lesive, così riesumando il canone, del tutto irrazionale, del post hoc ergo propter hoc. Viceversa, ai fini dell’individuazione dell’eziologia di un evento, l’analisi giudiziale procede secondo un ben preciso paradigma logico: ciò che deve essere spiegato (explanandum: ad esempio, la morte di Tizio) va inferito da un insieme di premesse (explanans), costituite da enunciati relativi alle condizioni empiriche antecedenti di rilievo (ad esempio, Caio ha sparato a Tizio, colpendolo al cuore) e da generalizzazioni asserenti delle regolarità (se un proiettile attinge il cuore di un uomo, questi muore). Dunque l’explanandum viene reso intelligibile mediante la connessione ad un complesso di condizioni empiriche antecedenti, sulla base delle leggi incluse nell’explanans. E’ questa la c.d. nozione nomologico-funzionale di causa, prevalente nel pensiero scientifico moderno, secondo la quale il “perchè” di un evento risulta identificato con un insieme di condizioni empiriche antecedenti, contigue nello spazio e continue nel tempo, dalle quali dipende il susseguirsi dell’evento stesso, secondo un’uniformità regolare, rilevata in precedenza ed enunciata in una legge. Dunque, i giudici di merito avrebbero dovuto spiegare, sulla base di un adeguato supporto di carattere scientifico, quale sia stato lo snodarsi dell’iter diagnostico-terapeutico; quale sia stato l’agire del medico; quali fossero le leggi scientifiche che presiedevano alla tipologia dell’intervento da effettuarsi; se e sotto quale profilo la condotta del medico sia stata contraria alle predette leggi; se le lesioni subite siano eziologicamente da correlarsi agli eventuali errori commessi dal medico o se siano prefigurabili decorsi causali alternativi o comunque fattori causali interferenti nella produzione dell’evento.
5. E’ fondato anche il terzo motivo di ricorso, inerente alla ravvisabilità o meno della colpa lieve, nell’ottica delineata dall’art. 590 sexies c.p.. Occorre, infatti, stabilire quale sia il regime giuridico applicabile all’evento. Al riguardo, va rilevato come dall’epoca in cui si è verificato il fatto, nell’anno 2011, ad oggi si siano succedute ben tre normative. Nel 2011 l’ordinamento non dettava alcuna particolare prescrizione in tema di responsabilità medica. Erano dunque applicabili i principi generali in materia di colpa, alla stregua dei quali il professionista era penalmente responsabile, ex art. 43 c.p., quale che fosse il grado della colpa. Era cioè indifferente, ai fini della responsabilità, che il medico versasse in colpa lieve o in colpa grave. Nel 2012 entrò in vigore il D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito in L. 8 novembre 2012, n. 189 (cosiddetta legge Balduzzi), il quale all’art. 3, comma 1, recitava: “L’esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, si attiene alle linee-guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi, resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”. E’ poi entrata in vigore la L. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco), la quale, all’art. 6, ha abrogato il predetto D.L. n. 158 del 2012, art. 3 e ha dettato l’art. 590 sexies c.p., attualmente vigente. Occorre dunque stabilire quale sia il regime applicabile al caso di specie. E’ in primo luogo da escludersi che quest’ultimo sia ravvisabile nell’assetto normativo vigente all’epoca del fatto. Abbiamo, infatti, appena rilevato come nel contesto del regime normativo originario la distinzione fra colpa lieve e colpa grave fosse del tutto irrilevante ai fini della responsabilità penale, potendo, al più, assumere rilievo nell’ottica del trattamento sanzionatorio, in quanto colpa lieve e colpa grave erano titoli del tutto equipollenti d’imputazione soggettiva dell’illecito. Sia il decreto Balduzzi che la legge Gelli-Bianco prevedono invece delle limitazioni alla responsabilità del medico che erano sconosciute al regime originario e costituiscono, dunque, entrambe, legge più favorevole, nell’ottica delineata dall’art. 2 c.p.. Esclusa dunque l’applicabilità del regime vigente nel 2011, occorre stabilire quale delle due normative sopravvenute sia applicabile. Orbene, in questa prospettiva, va rilevato come il tenore testuale dell’art. 590 sexies, introdotto dalla L. n. 24 del 2017, nella parte in cui fa riferimento alle linee-guida, sia assolutamente inequivoco nel subordinare l’operatività della disposizione all’emanazione di linee-guida “come definite e pubblicate ai sensi di legge”. La norma richiama dunque la L. n. 24 del 2017, art. 5, che detta, come è noto, un articolato iter di elaborazione e di emanazione delle linee-guida. Dunque, in mancanza di linee-guida approvate ed emanate mediante il procedimento di cui alla L. n. 24 del 2017, art. 5, non può farsi riferimento all’art. 590 sexies c.p., se non nella parte in cui questa norma richiama le buone pratiche clinico-assistenziali, rimanendo, naturalmente, ferma la possibilità di trarre utili indicazioni di carattere ermeneutico dall’art. 590 sexies c.p., che, a regime, quando verranno emanate le linee-guida con il procedimento di cui all’art. 5, costituirà il fulcro dell’architettura normativa e concettuale in tema di responsabilità penale del medico. Ne deriva che la possibilità di riservare uno spazio applicativo nell’attuale assetto fenomenologico e normativo all’art. 590 sexies c.p. è ancorata all’opzione ermeneutica consistente nel ritenere che le linee-guida attualmente vigenti, non approvate secondo il procedimento di cui alla L. n. 24 del 2017, art. 5, possano venire in rilievo, nella prospettiva delineata dalla norma in esame, come buone pratiche clinico-assistenziali. Opzione ermeneutica non agevole ove si consideri che le linee guida differiscono notevolmente, sotto il profilo concettuale, prima ancora che tecnico-operativo, dalle buone pratiche clinico-assistenziali, sostanziandosi in raccomandazioni di comportamento clinico, sviluppate attraverso un processo sistematico di elaborazione concettuale, volto a offrire indicazioni utili ai medici nel decidere quali sia il percorso diagnostico- terapeutico più appropriato in specifiche circostanze cliniche (Cass., Sez. 4, n. 18430 del 5/11/2013, Rv. 261293). Esse consistono dunque nell’indicazione di standards diagnostico-terapeutici conformi alle regole dettate dalla migliore scienza ed esperienza medica, a garanzia della salute del paziente (Cass., n. 11493 del 24/1/2013; Cass., n. 7951 dell’8/10/2013, Rv. 259334) e costituiscono il condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi (Sez. U., n. 29 del 21/12/2017): e quindi qualcosa di molto diverso da una semplice buona pratica clinico-asssitenziale. Laddove però volesse accedersi alla tesi, pur non esente da profili di problematicità, dell’equiparazione delle linee-guida attualmente vigenti – non approvate ed emanate attraverso il procedimento di cui alla L. n. 24 del 2017, art. 5 – alle buone pratiche clinico-assistenziali, previste dall’art. 590 sexies c.p., aprendo così la strada ad un’immediata operatività dei principi dettati da quest’ultima norma, la trama dei rapporti tra il D.L. n. 158 del 2012, art. 3 e l’art. 590 sexies c.p. è quella, del tutto condivisibile, delineata da Sez. U., 21/12/2017, Mariotti. Il D.L. n. 158 del 2012, art. 3 è più favorevole dell’art. 590 sexies c.p. in relazione alle contestazioni relative a comportamenti del sanitario, commessi prima dell’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco, connotati da negligenza o imprudenza con configurazione di colpa lieve, che solo per il decreto Balduzzi erano esenti da responsabilità, quando risultava provato il rispetto delle linee-guida o delle buone pratiche accreditate. Ciò perchè è incontrovertibile, sulla base del tenore testuale dell’art. 590 sexies c.p., comma 2, che quest’ultima norma sia applicabile esclusivamente ai casi di imperizia mentre, in relazione al D.L. n. 158 del 2012, art. 3, si era ritenuto,in giurisprudenza, che la limitazione della responsabilità in caso di colpa lieve, prevista da quest’ultima norma, pur trovando il proprio terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia, potesse venire in rilievo anche quando il parametro valutativo della condotta dell’agente fosse quello della diligenza o della prudenza (Cass., Sez. 4, n. 45527 del 1/7/2015, Rv. 264987; Sez. 4, n. 23283 dell’11/5/2016, Rv. 266903). Ma, secondo le Sezioni unite, anche nell’ambito della colpa da imperizia è più favorevole il decreto Balduzzi, poichè l’errore determinato da colpa lieve che sia caduto sul momento selettivo delle linee- guida, e cioè su quello della valutazione dell’appropriatezza della linea-guida, è coperto dall’esenzione di responsabilità ex art. 3 (Cass., Sez. 4, n. 47289 del 9/10/2014, Stefanetti) mentre non lo è più in base all’art. 590 sexies c.p.. Sempre nell’ambito della colpa da imperizia, per quanto attiene invece alla fase attuativa, l’errore determinato da colpa lieve, secondo il condivisibile orientamento del supremo Collegio, andava esente da responsabilità per il decreto Balduzzi ed è oggetto di causa di non punibilità in base all’art. 590 sexies c.p., essendo, in tale prospettiva, ininfluente, in relazione alla decisione del giudice penale che si pronunci nella vigenza della nuova legge su fatti verificatisi antecedentemente alla sua entrata in vigore, la qualificazione giuridica dello strumento tecnico attraverso il quale giungere al verdetto liberatorio. Dunque, per quanto riguarda la fase attuativa dei precetti delle linee-guida, legge Balduzzi e legge Gelli-Bianco si equivalgono, perchè entrambe scriminano l’errore determinato da colpa lieve. Questa configurazione concettuale dei rapporti tra il decreto Balduzzi e la legge Gelli-Bianco deriva dalla impalcatura teorica elaborata dalle Sezioni unite, nell’interpretazione della legge Gelli-Bianco, secondo cui l’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio dell’attività medico-chirurgica: a) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico assistenziali; c) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia nell’individuazione nella scelta di linee guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico.
6. La tematizzazione dei profili appena enucleati è del tutto estranea al tessuto motivazionale della sentenza impugnata, che pure è stata emanata nel 2018 e quindi successivamente non solo al decreto Balduzzi ma anche all’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco. La questione era stata, d’altronde, dedotta con i motivi d’appello, onde ci troviamo in presenza del vizio di mancanza di motivazione, che è ravvisabile non solo quando quest’ultima venga completamente omessa ma anche quando sia priva di singoli momenti esplicativi in ordine ai temi sui quali deve vertere il giudizio (Cass., Sez. 6, n. 27151 del 27/6/2011; Sez. 6, n. 35918 del 17/6/2009, Rv. 244763). Si impone, quindi, al riguardo, un pronunciamento rescindente, con rinvio al giudice di merito, in quanto la regiudicanda in esame richiede che si stabilisca: se l’atto medico sub iudice costituisse, all’epoca in cui è stata posta in essere la condotta, oggetto di linee-guida; cosa queste ultime prescrivessero; in mancanza, se vi fossero, al riguardo, buone-pratiche clinico assistenziali; se l’imputato si sia determinato sulla base di linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali adeguate al caso concreto; nell’affermativa, se l’imputato si sia attenuto ad esse o meno; se sia configurabile, nel suo operato, una colpa; se quest’ultima sia da considerarsi lieve o grave. E, sotto quest’ultimo profilo, non appare inutile richiamare l’orientamento giurisprudenziale secondo cui al fine di distinguere la colpa lieve dalla colpa grave, possono essere utilizzati i seguenti parametri: a) la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi; b) la misura del rimprovero personale, sulla base delle specifiche condizioni dell’agente; c) la motivazione della condotta; d) la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa (Cass., n. 22405 dell’8/5/2015, Rv. 263736).
7. La sentenza impugnata va dunque annullata, con rinvio, per nuovo esame, alla Corte d’appello di Venezia.PQMP.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia, per nuovo esame, alla Corte d’appello di Venezia.
Così deciso in Roma, il 21 marzo 2019