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Riforma processo penale: i riti alternativi

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Procedura penale

Riforma processo penale

Riforma processo penale: i riti alternativi

giovedì 01 dicembre 2022

di Giordano Luigi Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione
La riforma “Cartabia” si è occupata anche della disciplina dei riti alternativi. Le novità consistono in un ampliamento delle possibilità di accesso ai riti speciali e in un aumento dei vantaggi premiali connessi alla loro scelta. Esse sono limitate e soprattutto non sembrano in grado di determinare radicali trasformazioni nell’approccio tali riti, sebbene si continui a confidare sugli stessi per il sostanziale recupero di efficienza del processo penale ed il raggiungimento degli obiettivi previsti dal Piano per la ripresa dell’Europa. Sussiste anzi il rischio che le riforme realizzate, più che ridurre i carichi del rito dibattimentali, sottraggano spazi ora all’uno, ora all’altro procedimento deflattivo, senza un reale beneficio per il sistema giustizia. In questa prima parte tratteremo le novità in tema di giudizio abbreviato e applicazione della pena (D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 – G.U. 17 ottobre 2022, n. 243, suppl. ord. n. 38/L).

D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 – G.U. 17 ottobre 2022, n. 243, suppl. ord. n. 38/L

Premessa

Come è noto, l’Italia ha assunto l’impegno di ridurre in cinque anni del 40% il tempo medio di durata dei procedimenti civili e del 25% di quelli penali nonché di ridurre del 90% l’arretrato che grava sugli uffici giudiziari. Si tratta di obiettivi fondamentali perché dal loro raggiungimento dipendono i fondi previsti dal Piano per la ripresa dell’Europa (cfr. M. Cartabia, Ridurre del 25% i tempi del giudizio penale: un’impresa per la tutela dei diritti e un impegno con l’Europa, per la ripresa del Paese, in www.sistemapenale.it, 31 maggio 2021).

La legge delega n. 134 del 2021, nell’ambito degli interventi finalizzati al perseguimento di tale scopo, ha previsto la riforma di diversi istituti del processo penale, tra i quali quella dei riti alternativi al dibattimento individuati come strumento per rendere più veloce il processo.

Il legislatore delegante ha fissato alcuni criteri direttivi volti a migliorare l’accesso ai riti deflattivi, ampliandone i limiti di ammissibilità o incentivandone la scelta con maggiori vantaggi premiali.

Tali riti, invero, restano ancora ancora scarsamente utilizzati. Nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021 del Primo Presidente della Corte di cassazione sono riportati i dati statistici relativi all’accesso ai riti alternativi. Il ricorso ai riti speciali davanti al GIP/GUP (patteggiamento e abbreviato) è definito “stabile, ancorché insufficiente”. Soltanto l’8% delle definizioni davanti al predetto giudice avviene con un rito speciale (7% nell’anno giudiziario 2019/2020), sicché non sembra che siano emersi segnali di un’inversione di tendenza. Non è diversa la situazione che si verifica davanti al giudice dibattimentale ove si riscontra una scarsa efficacia dei riti speciali. Salvo che nelle ipotesi di giudizio immediato (n. 5.362 nell’anno giudiziario 2019/2020; n. 6.228 nell’anno giudiziario 2020/2021), il giudizio abbreviato instaurato al di fuori del giudizio direttissimo (n. 11.807 nell’anno giudiziario 2019/2020; n. 13.476 nell’anno giudiziario 2020/2021) presenta dati quantitativi trascurabili rispetto alla totalità dei rinvii a giudizio (262.085 nell’anno giudiziario 2020/2021; 297.650 nell’anno giudiziario 2019/2020). Non diversa è la situazione del patteggiamento (17.384 nell’anno giudiziario 2019/2020; n. 19.000 nell’anno giudiziario 2020/2021).

Nel 2021, le richieste di definizione con riti alternativi promosse dal pubblico ministero (richiesta di decreto penale; richiesta di patteggiamento con il preventivo consenso della parte nel corso delle indagini preliminari), che costituiscono in termini quantitativi la seconda modalità di esercizio dell’azione penale, assommano al 15% del totale (cfr. la Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021, in www.sistemapenale.it, 24 gennaio 2022, p. 56 e 57; sul tema, si veda, R. Bricchetti, Il malfunzionamento dei riti alternativi una causa della crisi del sistema penale, in Guida dir., 2021 (41), p. 61).

Come si vedrà nel prosieguo, tuttavia, le novità sono poche e soprattutto non sembrano in grado di determinare radicali sconvolgimenti nell’approccio ai riti alternativi. Anzi, è stato paventato il rischio concreto che le riforme in atto, più che ridurre i carichi dibattimentali, sottraggano spazi ora all’uno, ora all’altro procedimento deflattivo, senza un reale beneficio (F. Zacché, I riti alternativi nella legge delega e l’obiettivo giustizia -25%, in A. Marandola (a cura di), Riforma Cartabia e processo penale. La legge delega tra impegni europei e scelte valoriali, Milano, 2022, 101). Del resto, la dottrina aveva già criticato la legge delega n. 134 del 2021, ritenendo che, in relazione ai riti alternativi, si fosse mancata l’occasione della riforma (A. Bassi, I riti speciali nella riforma Cartabia: un’occasione mancata?, in www.ilpenalista.it, 25 ottobre 2021; G. Varraso, La legge “Cartabia” e l’apporto dei procedimenti speciali al recupero dell’efficienza processuale, in www.sistemapenale.it, 8 febbraio 2022)

Il recupero di efficienza della giustizia penale, verosimilmente, non dipenderà dalla revisione della disciplina dei riti alternativi; essa potrà solo contribuire in modo marginale al raggiungimento dello scopo che dipenderà in misura più marcata dalle altre modifiche normative realizzate con il decreto legislativo.

Le novità in tema di giudizio abbreviato

L’art. 1, comma 10, lett. b), n. 1, della legge delega n. 134 del 2021, al fine di incentivare il ricorso al rito speciale, ha assegnato al legislatore delegato il compito di modificare la regola di giudizio per l’accesso al rito abbreviato subordinato a un’integrazione probatoria, prevedendone l’ammissione “se l’integrazione risulta necessaria ai fini della decisione e se il procedimento speciale produce un’economia processuale in rapporto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale”.

In attuazione di questo criterio direttivo della legge delega, l’art. 24, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 150/2022 ha riformato l’art. 438, comma 5 e 6-ter, c.p.p.

In particolare, l’art. 438, comma 5, c.p.p. è stato modificato in modo da recepire, in modo puntuale, il criterio prognostico della delega, che impone di mettere in rapporto il supplemento probatorio richiesto nel corso del giudizio abbreviato con l’istruzione dibattimentale da svolgersi in dibattimento. Il giudice, in base alla norma come riformulata, dispone il giudizio abbreviato se, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili, l’integrazione probatoria richiesta risulta necessaria ai fini della decisione “e il giudizio abbreviato realizza comunque una economia processuale, in relazione ai prevedibili tempi dell’istruzione dibattimentale”.

Per apprezzare la portata dell’innovazione, occorre fare un passo indietro.

Secondo la formulazione precedente dell’art. 438, comma 5, c.p.p., invero, il giudice dell’udienza preliminare deve disporre il giudizio abbreviato, condizionato all’integrazione probatoria, solo in presenza di due requisiti dell’integrazione probatoria richiesta: la sua necessità ai fini del giudizio finale sull’imputazione e la sua compatibilità con la finalità di economia processuale proprie del rito.

Il secondo requisito impone al giudice di effettuare un confronto tra il rito speciale ed il giudizio ordinario dibattimentale: si tratta di un concetto di relazione che esige di avere riguardo all’onerosa formazione della prova in dibattimento, mentre non va eseguita una comparazione con il giudizio abbreviato “puro” o “secco” (Corte cost. n. 115 del 09/05/2001). In questa prospettiva, il giudizio abbreviato, anche se subordinato a consistente integrazione probatoria, si traduce sempre in una consistente economia processuale rispetto alla più onerosa formazione della prova in dibattimento, con la conseguenza che il rilievo selettivo di questo requisito per l’accesso al giudizio abbreviato dovrebbe essere molto svilito (secondo la sentenza della Corte costituzionale dapprima citata, “qualunque atto istruttorio necessario è più economico quando assunto nel contesto del rito abbreviato”).

Un indirizzo giurisprudenziale, tuttavia, ha continuato ritenere legittimo il diniego di accesso al rito abbreviato quando la condizione riguarda l’esame di un numero talmente elevato di testimoni da rendere incompatibile il rito speciale con le esigenze di economia processuale. Secondo questa impostazione, il rito speciale si rivela incompatibile con le esigenze di economia processuale ed addirittura “diseconomico” rispetto alla durata ragionevolmente prevedibile del giudizio celebrato nelle forme ordinarie (Cass. pen. sez. III, n. 28141 del 17/5/2012; Cass. pen. sez. I, n. 315 del 12/11/2018, dep. 2019; Cass. pen. sez. III, n. 28693 del 23/02/2017).

Per verificare la sussistenza del requisito in esame, inoltre, secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice deve valutare la complessità qualitativa e quantitativa non solo delle prove richieste dall’imputato, ma anche di quelle a controprova che, presumibilmente, il pubblico ministero sarà indotto a chiedere; non può invece tenere conto delle prove che egli stesso potrebbe decidere di assumere ai sensi dell’art. 441, comma 5, c.p.p., trattandosi di una complicazione istruttoria meramente eventuale, non pronosticabile al momento della decisione sull’ammissibilità del giudizio abbreviato e dipendente non dalle richieste probatorie dell’imputato, ma dall’esito delle prove assunte (Cass. pen. sez. III, n. 219 del 21/10/2004, dep. 2005; Cass. pen. sez. I, n. 5942 del 26/11/2008, dep. 2009).

Anche il riferimento alla probabile contro-prova che sarebbe richiesta dal pubblico ministero è stato adoperato per negare l’accesso al rito speciale in esame.

La modificazione dell’art. 438, comma 5, c.p.p. ha inteso incidere su questo secondo presupposto del giudizio abbreviato condizionato. Per effetto della riforma, difatti, il requisito della necessità della prova ai fini della decisione è restato fermo; quello della valutazione dell’economia processuale è stato riformulato: l’ammissione del rito speciale va disposta se la prova richiesta determina comunque una economia processuale rispetto ai prevedibili tempi dell’istruttoria dibattimentale.

L’esplicito riferimento ai tempi del giudizio dibattimentale, certamente più lunghi pure rispetto a quelli di un giudizio abbreviato in cui sia stata richiesta una consistente integrazione probatoria, dovrebbe determinare un ampliamento dell’area di ammissione dell’abbreviato subordinato a tale integrazione. Se posto nel paragone con il dibattimento e i suoi tempi, il giudizio abbreviato integrato, difatti, produce sempre un’economia processuale (cfr. E.N. La Rocca, Il modello di riforma “Cartabia”: ragioni e prospettive della Delega n. 134/2021, in Arch. pen. 2021, 3, 30). La modifica, nella prassi, potrebbe però assumere uno scarso significato, valendo solo a ribadire che il criterio effettivo di ammissione del rito è quello rappresentato dalla necessità della prova ai fini della decisione.

Nell’art. 438, comma 6-ter, c.p.p., poi, è stato inserito un nuovo secondo periodo che disciplina esplicitamente la possibilità di rinnovo, in limine al dibattimento, della richiesta di abbreviato illegittimamente rigettata o dichiarata inammissibile (salvo che si tratti di inammissibilità dichiarata ai sensi dell’art. 438, comma 1-bis, c.p.p., nel caso di delitti puniti con l’ergastolo, nel quale caso la stessa disposizione già prevedeva un rimedio specifico). Il dato normativo, pertanto, è stato allineato al meccanismo di sindacato introdotto dalla sentenza della Corte costituzionale 23/5/2003 n. 169, con la quale è stata riconosciuta la possibilità per l’imputato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, di riproporre la richiesta, già rigettata dal giudice per le indagini preliminari, di giudizio abbreviato condizionata a una integrazione probatoria.

Va anche evidenziato che il giudice dibattimentale, il quale abbia respinto “in limine litis” la richiesta di accesso al rito abbreviato – “rinnovata” dopo il precedente rigetto del giudice per le indagini preliminari ovvero proposta per la prima volta, in caso di giudizio direttissimo o per citazione diretta – deve applicare anche d’ufficio la riduzione di un terzo prevista dall’art. 442 c.p.p., se riconosca (pure alla luce dell’istruttoria espletata) che quel rito si sarebbe dovuto invece celebrare (Cass. pen. sez. Unite, n. 44711 del 27/10/2004).

Per coerenza sistematica, una conseguenziale riforma ha riguardato anche l’art. 458, comma 2, c.p.p., permettendo il sindacato del diniego del giudizio abbreviato condizionato anche nel caso di richiesta di rito abbreviato a seguito della notificazione del decreto di giudizio immediato. Anche in questo caso, si tratta di una disposizione su cui era intervenuta la declaratoria di incostituzionalità della Corte costituzionale, con la sentenza n. 169/2003 e che, tuttavia, era stata formalmente “sostituita” dall’art. 1, comma 47, della L. 23/6/2017, n. 103 senza recepire l’intervento additivo della Corte costituzionale.

È stata offerta, in tal senso, una soluzione “maggiormente funzionale a garantire la certezza del diritto”, raccogliendo una esortazione contenuta nella sentenza della Corte costituzionale n. 127/2021 ad allineare il testo del codice di rito alle sentenze della Corte stessa.

Per mera completezza, appare utile sottolineare che il presupposto della necessità della prova ai fini della decisione non è stato riformulato e sembra rimanere il criterio centrale per il giudizio di ammissione del rito abbreviato subordinato ad una integrazione probatoria.

Tale integrazione, dunque, deve essere necessaria per la decisione.

Con quest’espressione s’intende che essa si deve rivelare “indispensabile per valutare un qualsiasi aspetto della re iudicanda”, purché sia un profilo centrale o di rilievo, ancorché poco esplorato o comunque abbisognevole di approfondimento (Cass. pen. sez. Un., n. 44711 del 27/10/2004). In concreto, l’integrazione probatoria deve andare a colmare una lacuna investigativa relativa ad aspetti essenziali del giudizio.

La prova necessaria per la decisione, pertanto, è tale in forza di presupposti più stringenti dei normali canoni di pertinenza, rilevanza e non superfluità previsti dall’art. 190 c.p.p. Occorre un’oggettiva utilità della prova richiesta a fornire un risultato probatorio funzionale al completo accertamento dei fatti (così come delimitati dal perimetro di cui all’art. 187 c.p.p.) (Cass. pen. sez. Un., n. 44711 del 27/10/2004).

La valutazione della necessità della prova richiesta, poi, va compiuta in riferimento a tutte le imputazioni e non soltanto rispetto a talune contestazioni (Cass. pen. sez. VI, n. 17884 del 02/04/2009) e le ulteriori acquisizioni probatorie devono essere soltanto integrative, e non sostitutive, del materiale già acquisito e utilizzabile come base cognitiva, in quanto strumentali ad assicurare il completo accertamento dei fatti rilevanti nel giudizio (Cass. pen. sez. I, n. 10016 del 13/07/2018).

Più in generale, la giurisprudenza ha chiarito che l’integrazione probatoria nel rito abbreviato, sia d’ufficio, sia su richiesta dell’imputato, è espressione della fondamentale esigenza di completezza dell’accertamento probatorio rinvenibile nell’ordinamento, sul presupposto che, se le informazioni probatorie a disposizione del giudice sono più ampie, è più probabile che la sentenza sia più equa e che il giudizio si mostri aderente ai fatti (In questi termini, Cass. pen. sez. II, n. 43329 del 18/10/2007, che richiama Cass. pen., sez. Unite, n. 41281 del 17/10/2006).

Nonostante la rigidità del requisito, peraltro, la prassi giurisprudenziale sembra orientata ad escludere qualsiasi automatismo preclusivo: potrebbe essere indispensabile escutere anche il teste già ascoltato nelle indagini su profili poco chiari o non analizzati. Potrebbe essere necessaria la trascrizione di una conversazione intercettata, soprattutto dopo che il difensore ha potuto esercitare il diritto di ricevere copia delle tracce audio delle registrazioni e, dunque, è stato messo in condizione di valutare la correttezza di quanto riportato nei cd. brogliacci. In questi casi, che comunque sono ipotesi limite, è onere dell’imputato motivare specificamente la sua richiesta.

L’art. 1, comma 10, lett. b), n. 2, della legge delega, poi, ha fissato una specifica direttiva per il legislatore delegato tesa a “prevedere che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato, stabilendo che la riduzione sia applicata dal giudice dell’esecuzione”.

In attuazione di questa direttiva è stato introdotto nell’art. 442 c.p.p., il nuovo comma 2-bis, secondo cui “quando né l’imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione”. L’obiettivo perseguito con l’ulteriore sconto della pena è chiaramente quello di limitare le impugnazioni meramente dilatorie.

Il riferimento contenuto nella legge delega alla mancata impugnazione “da parte dell’imputato” è stato, ovviamente, inteso come mancata impugnazione tanto dell’imputato, quanto del suo difensore, perché:

– l’art. 571 c.p.p., nel disciplinare unitariamente la “impugnazione dell’imputato”, fa riferimento tanto all’impugnazione personale dell’imputato (comma 1), quanto all’impugnazione proposta dal suo difensore (comma 3);

il beneficio è riconosciuto in ogni caso di mancata impugnazione dell’imputato, quale che sia lo strumento prescelto (appello o ricorso per cassazione), rendendo evidente che, nel caso di ricorso in cassazione, non possa che riferirsi alla impugnazione del difensore, il solo legittimato a proporlo (artt. 571, comma 1, e 613, comma 1, c.p.p.);

– la ratio deflattiva dell’intervento – che collega alla acquiescenza, e al connesso risparmio di tempo e risorse processuali, l’ulteriore trattamento premiale in relazione alla pena inflitta – sarebbe totalmente frustrata ove si accedesse a una interpretazione diversa del criterio di delega, che consentisse all’imputato di fruire di uno sconto di pena quando l’appello non fosse proposto personalmente da lui, ma dal difensore a farlo nel suo interesse.

All’art. 676 c.p.p. è conseguentemente inserita la nuova competenza del giudice dell’esecuzione il quale, secondo il rito previsto dall’art. 667, comma 4, c.p.p. e, dunque, de plano, provvede all’applicazione della riduzione della pena prevista dall’art. 442, comma 2-bis, c.p.p.

La dottrina, soffermandosi sulla direttiva della legge delega, ha manifestato ampie riserve sull’effettiva efficacia deflativa della nuova riduzione della pena, a fronte della possibilità per l’imputato di pervenire a un concordato sulla pena in appello ai sensi dell’art. 599-bis c.p.p., che la riforma ammette per qualsiasi reato (G. Varraso, La legge “Cartabia” e l’apporto dei procedimenti speciali al recupero dell’efficienza processuale, in www.sistemapenale.it, 8 febbraio 2022).

L’art. 24, comma 1, lett. b), del D.Lgs. n. 150/2022 ha modificato l’art. 441 c.p.p. specificando che le prove dichiarative, nel corso dell’abbreviato condizionato, sono assunte nelle forme dell’art. 510 c.p.p. così come modificato dal medesimo decreto legislativo e, dunque, “anche con mezzi di riproduzione audiovisiva”. Si tratta di una norma probabilmente inutile, posto che difficilmente si sarebbe messa in dubbio la conformità della modalità di assunzione della prova tra il giudizio dibattimentale e quello abbreviato condizionato.

L’art. 1, comma 10, lett. b), n. 3, della L. n. 134/2021, quindi, assegna una puntuale delega consistente nell’abrogazione dell’art. 442, comma 3, c.p.p. e dell’art. 134 disp. att. c.p.p. Queste norme sono state abrogate dall’art. 98, comma 1, lett. a) e b), del d.lgs. n. 150/2022. Per effetto di queste abrogazioni, la sentenza non è più notificata all’imputato non comparso, per estratto, unitamente ad avviso di deposito. Il legislatore, sul punto, ha preso atto che la giurisprudenza già riteneva implicitamente abrogate queste disposizioni a seguito del superamento della contumacia per effetto della L. 28/4/2014, n. 67 (Cass. pen., Sez. Un., n. 698 del 24/10/2019, dep. 2020).

L’art. 24 comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 150/2022, infine, ha riformato l’art. 438, comma 3, c.p.p. al fine di adeguarlo all’abrogazione dell’art. 583 c.p.p. disposta dall’art. 98 dello stesso decreto legislativo.  A seguito della modifica normativa, la volontà dell’imputato di accedere al rito abbreviato deve comunque essere espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale, ma la sottoscrizione deve essere autenticata “da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore”, esattamente come prevedeva il previgente art. 583, comma 3, c.p.p.

Le novità in tema di applicazione della pena

L’art. 1, comma 10, lett. a), n. 1, della legge delega n. 134/2021, al fine di incentivare il ricorso al rito speciale, ha assegnato al legislatore delegato il compito di riformare la disciplina del procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti, prevedendo:

– che “quando la pena detentiva da applicare supera i due anni, l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata”;

– che, “in tutti i casi di applicazione della pena su richiesta, l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare”.

In attuazione di questi criteri direttivi della legge delega, l’art. 25, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 150/2022 ha riformato l’art. 444, comma 1, c.p.p. stabilendo che l’imputato e il pubblico ministero, con la richiesta di applicazione della pena, “possono” altresì chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata e di non ordinare la confisca facoltativa o di ordinarla con riferimento a specifici beni o a un importo.

Conseguentemente è stato riformato anche l’art. 444, comma 2, c.p.p., essendo stato stabilito che il giudice disponga con sentenza l’applicazione della pena se ritiene corrette, tra l’altro, le determinazioni in merito alla confisca e, se le ritiene congrue, le pene indicate, dunque, sia quella principale, sia quelle accessorie.

La richiesta di non applicazione delle pene accessorie o di una loro applicazione per una durata determinata, in particolare, può riguardare solo le ipotesi di procedimenti di applicazione della pena superiore ad anni due di reclusione, soli o congiunti a pena detentiva (cd. patteggiamento allargato).

L’art. 445, comma 1, c.p.p., che non è stato riformato, infatti, prevede che la sentenza di applicazione della pena che non supera la misura dapprima indicata non comporti l’applicazione di pene accessorie.

È stata lasciata inalterata, inoltre, la peculiare disciplina contenuta nell’art. 444, comma 3-bis, c.p.p., relativa all’applicazione delle pene accessorie per i reati contro la pubblica amministrazione.

Secondo questa disciplina, nei procedimenti per i delitti previsti dagli artt. 314, comma 1, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, comma 1, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis c.p., la parte, nel formulare la richiesta, può subordinarne l’efficacia all’esenzione dalle pene accessorie previste dall’art. 317-bis c.p. ovvero all’estensione degli effetti della sospensione condizionale anche a tali pene accessorie. La stessa norma, inoltre, prevede che “il giudice, se ritiene di applicare le pene accessorie o ritiene che l’estensione della sospensione condizionale non possa essere concessa, rigetta la richiesta”.

La formulazione della norma è tale da indurre a ritenere che, se non fosse concordata la non applicazione, la durata della pena accessoria possa essere liberamente pattuita.

Lo stesso art. 445, comma 1, c.p.p. dapprima citato stabilisce che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti non comporta l’applicazione di misure di sicurezza, “fatta eccezione della confisca nei casi previsti dall’art. 240 Codice penale”.

Quest’ultima disposizione, come è noto, contempla tanto ipotesi di confisca facoltativa (cose che servirono o furono destinate a commettere il reato o che ne sono il prodotto o il profitto), quanto ipotesi di confisca obbligatoria (cose che costituiscono il prezzo del reato; beni e strumenti informatici o telematici che risultino essere stati in tutto o in parte utilizzati per la commissione dei reati di cui agli< rel=”noopener noreferrer”a href=”https://onelegale.wolterskluwer.it/document/05AC00011263″ target=”_blank” title=”05AC00011263″> artt. 615-ter, 615-quater, 615-quinquies, 617-bis, 617-ter, 617-quater, 617-quinquies, 617-sexies, 635-bis, 635-ter, 635-quater, 635-quinquies, 640-ter e 640-quinquies; cose, la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione e l’alienazione delle quali costituisce reato).

A seguito della riforma, l’accordo tra le parti può riguardare anche la confisca facoltativa, nel senso che è possibile proporre al giudice, in modo concorde, di non ordinarla ovvero di ordinarla soltanto con riferimento a specifici beni o a un determinato importo.

La nuova norma, ovviamente, non riguarda la confisca obbligatoria che esula dall’oggetto dell’accordo tra le parti e che dovrà comunque essere disposta dal giudice.

È il caso di richiamare il principio consolidato secondo cui, in tema di confisca, il prodotto del reato rappresenta il risultato, cioè il frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita; il profitto, a sua volta, è costituito dal lucro, e cioè dal vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato; il prezzo, infine, rappresenta il compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato e costituisce, quindi, un fattore che incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l’interessato a commettere il reato (Cass. pen. sez. Unite, n. 9149 del 03/07/1996).

Il profitto del reato, dunque, è oggetto di confisca facoltativa e, quindi, può essere oggetto dell’accordo tra le parti del giudizio.

L’art. 1, comma 10, lett. a), n. 2, della legge delega, poi, ha fissato una specifica direttiva per il legislatore delegato tesa a “ridurre gli effetti extra-penali della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, prevedendo anche che questa non abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare e in altri casi”.

Questo canone della legge delega è stato attuato riformando, ad opera dell’art. 25, comma 1, lett. b), del D.Lgs. n. 150/2022, l’art. 445, comma 1-bis, c.p.p.

In particolare, il principio generale è rimasto quello secondo cui la sentenza di applicazione della pena “è equiparata a una pronuncia di condanna”. La portata di questo principio è stata mitigata in diverse direzioni:

– in primo luogo, mediante l’abrogazione dell’inciso “salvo quanto previsto dall’articolo 653” con cui si apriva la disposizione citata; in tal modo, senza che vi sia stata la necessità di intervenire sull’art. 653 c.p.p., che continua a riferirsi alle sole sentenze di assoluzione e di condanna, la sentenza di applicazione della pena non presenta efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare;

– prevedendo, poi, che la sentenza di applicazione della pena, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non abbia efficacia e non possa essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile; è stata dunque sancita l’irrilevanza probatoria della sentenza di patteggiamento in ogni procedimento giurisdizionale diverso da quello penale, quando il fatto storico oggetto della sentenza di patteggiamento possa avere una qualche rilevanza in quelle sedi;

– stabilendo, infine, che “se non sono applicate pene accessorie”, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’art. 444, comma 2, c.p.p. alla sentenza di condanna; ogni qual volta che, per effetto della sentenza di patteggiamento, non si applichino le pene accessorie (perché la condanna non supera la pena di anni due di reclusione, soli o congiunti a pena pecuniaria, oppure perché le parti, in forza del novellato art. 444, comma 1, c.p.p., si sono accordate per la non applicazione delle pene accessorie e il giudice ha reputato congruo tale accordo), vengono meno anche tutti gli altri effetti penali che discendono ope legis da una sentenza irrevocabile di condanna o di patteggiamento secondo una miriade di ipotesi previste dalle leggi speciali.

L’art. 1, comma 10, lett. a), n. 3 della legge delega, infine, ha assegnato al legislatore delegato il compito di “assicurare il coordinamento tra l’articolo 446 del codice di procedura penale e la disciplina adottata in attuazione del comma 12 del presente articolo, riguardo al termine per la formulazione della richiesta di patteggiamento”.

Questa direttiva non ha imposto interventi di adattamento dell’art. 446 c.p.p. È stato riformato, invece, l’art. 555, comma 1, lett. f), c.p.p., relativo al rito monocratico. Al riguardo, è stato previsto che la richiesta di applicazione della pena debba essere formulata entro il termine previsto dal nuovo art. 552-ter, comma 2, c.p.p. Quest’ultima norma prevede che detta richiesta, al pari dell’istanza di giudizio abbreviato, di sospensione del processo con messa alla prova nonché della domanda di oblazione, debba essere proposta, a pena di decadenza, prima della pronuncia della sentenza che, ai sensi del comma 1 della stessa norma, può chiudere l’udienza predibattimentale in camera di consiglio. Su questo profilo, peraltro, si rinvia al commento alla riforma del rito monocratico.

Ulteriori modifiche al patteggiamento sono state introdotte in attuazione dei criteri di delega di cui all’art. 1, comma 17, lett. e) e lett. i), in materia di pene sostitutive. Per questi aspetti si rinvia al commento relativo alla riforma delle sanzioni penali.

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