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Prosecuzione dello stalking nella contestazione aperta: serve l’accertamento giudiziale

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Reati contro la persona

Reati contro la persona

Prosecuzione dello stalking nella contestazione aperta: serve l’accertamento giudiziale

martedì 17 gennaio 2023

a cura della Redazione Wolters Kluwer
Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso l’ordinanza con cui il tribunale del riesame aveva accolto l’appello del Pubblico Ministero avverso l’ordinanza del Tribunale, che aveva dichiarato la cessazione, per decorrenza dei termini, della misura cautelare del divieto di dimora applicata ad un soggetto in relazione al delitto di atti persecutori, la Corte di Cassazione penale, Sez. V, con la sentenza 9 gennaio 2023, n. 242 – nell’accogliere la tesi difensiva secondo cui, perché il giudizio di responsabilità possa estendersi anche alle ulteriori condotte persecutorie, rispetto a quelle cristallizzate nell’imputazione, occorre che esse siano state oggetto di accertamento giudiziale – ha ribadito il principio secondo cui sia nel reato permanente che in quello abituale, la ulteriore prosecuzione della condotta – nell’ ipotesi di contestazione c.d. aperta – deve essere oggetto di accertamento giudiziale, non essendo sufficiente, ai fini della estensione del limite temporale della condotta la mera evocazione, nel giudizio, di ulteriori atti successivi a quelli cristallizzati nell’imputazione, salvo poi a distinguersi nel senso di ritenere necessaria o meno la contestazione integrativa.

Cassazione penale, Sez. V, sentenza 9 gennaio 2023, n. 242

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi Cass. pen. sez. I, 17/11/2005, n. 46583

Cass. pen. sez. I, 26/09/2007, n. 37335

Cass. pen. sez. I, 26/02/2014, n. 39221

Cass. pen. sez. II, 01/03/2016, n. 23343

Difformi Non si rinvengono precedenti in termini

Prima di soffermarci sulla pronuncia resa dalla Suprema Corte, deve essere ricordato che l’art. 612-bis, c.p., sotto la rubrica «Atti persecutori», punisce “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi, la condotta di chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.

Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.

Va dato atto che, nella giurisprudenza di legittimità, non si registra uniformità di vedute in tema di reato di atti persecutori con formulazione a “contestazione aperta”. Secondo un primo orientamento, nel caso di reato abituale, è necessario che tutti gli atti cronologicamente succedutisi siano stati oggetto di contestazione e di accertamento giudiziale a differenza che nel reato permanente in cui – nell’ipotesi in cui manchi la individuazione di un termine finale di consumazione della condotta – quest’ultimo non può che coincidere con quello della pronuncia della sentenza di primo grado che cristallizza l’accertamento processuale. Poiché quindi, al reato abituale non si estende il principio, proprio di quello permanente – secondo il quale, nell’ ipotesi di contestazione aperta, il giudizio di penale responsabilità dell’imputato può estendersi senza necessità di modifica della contestazione originaria agli sviluppi della fattispecie emersi dall’ istruttoria dibattimentale (Cass. pen. sez. II, n. 20798 del 20/04/2016, CED Cass. 267085, che ha precisato come nel caso di contestazione di un reato permanente nella forma cosiddetta “chiusa”, con precisa indicazione della data di cessazione della condotta illecita (ad es. con la formula “accertato fino al…”) il giudice può tener conto dell’eventuale protrarsi della consumazione soltanto se ciò sia oggetto di un’ulteriore contestazione ad opera del pubblico ministero ex art. 516 c.p.p.; qualora, invece, il reato permanente sia stato contestato in forma c.d. “aperta” – essendosi il PM limitato ad indicare solo la data di inizio della consumazione, ovvero quella dell’accertamento – il giudice può valutare, senza necessità di contestazioni suppletive, anche la condotta criminosa eventualmente posta in essere fino alla data della sentenza di primo grado) – le condotte persecutorie diverse e ulteriori rispetto a quelle descritte nella originaria imputazione devono essere oggetto di specifica contestazione, sia quando servono a perfezionare o a integrare l’originaria imputazione sia – e a maggior ragione – quando costituiscono una serie autonoma, unificabile alla precedente con il vincolo della continuazione (Cass. pen., sez. V, n. 45376 del 2/10/2019, CED Cass. 277255).

Secondo altro orientamento, anche nel delitto di atti persecutori – che è reato abituale e di evento, ed è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice, nonché dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, il quale deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell’ennesimo atto persecutorio, sicché ciò che rileva non è la datazione dei singoli atti, quanto la loro identificabilità quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione dell’evento (in tal senso, tra le più recenti massimate, Cass. pen. sez. V, n. 7899 del 14/01/2019, P., CED Cass. 275381) – trattandosi di reato che si consuma al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, il termine finale di consumazione coincide con quello della pronuncia della sentenza di primo grado, che cristallizza l’accertamento processuale, cosicché nell’ ipotesi di c.d. contestazione aperta, è possibile estendere il giudizio di penale responsabilità dell’imputato, anche a fatti non espressamente indicati nel capo di imputazione, e, tuttavia, accertati nel corso del giudizio, sino alla sentenza di primo grado (Cass. pen. sez. V, n. 22210 del 3/4/2017, CED Cass. 270241).

Ciò in quanto, in ragione della complessiva unitarietà del fatto in rapporto all’evento descritto dalla norma incriminatrice, non può affermarsi che il riferimento ad ulteriori episodi operato dalla persona offesa nel corso del dibattimento determini una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, tale da generare un’incertezza sull’oggetto dell’ imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Cass. pen. sez. V n. 15651 del 10/2/2020, CED Cass. 279154). Ne consegue che le condotte ulteriori rispetto a quelle descritte nell’imputazione non devono formare oggetto di specifica contestazione, perché si inseriscono nella sequenza criminosa integrativa dell’abitualità del reato contestato.

In tale ottica, si è osservato come, ai fini della rituale contestazione del delitto di atti persecutori, non si richieda che il capo di imputazione rechi la precisa indicazione del luogo e della data di ogni singolo episodio nel quale si sia concretato il compimento di atti persecutori, essendo sufficiente a consentire un’adeguata difesa la descrizione in sequenza dei comportamenti tenuti, la loro collocazione temporale di massima e le conseguenze per la persona offesa (ex multis, Cass. pen. sez. V, n. 28623 del 27/4/2017, C e altri, CED Cass. 270875; Cass. pen. sez. V, n. 35588 del 3/4/2017, P e P.C., CED Cass. 271206; Cass. pen. sez. V, n. 7544 del 25/10/2012, C., CED Cass. 255016).

Invero, trattandosi di reato abituale, è la condotta nel suo complesso ad assumere rilevanza e, in tal senso, l’essenza dell’incriminazione di cui si tratta si coglie non già nello spettro degli atti considerati tipici, bensì nella loro reiterazione, elemento che li cementa, identificando un comportamento criminale affatto diverso da quelli che concorrono a definirlo sul piano oggettivo.

È dunque l’atteggiamento persecutorio ad assumere specifica autonoma offensività ed è, per l’appunto, alla condotta persecutoria nel suo complesso che deve guardarsi per valutarne la tipicità, anche sotto il profilo della produzione dell’evento richiesto per la sussistenza del reato. In tale ottica, il fatto che detto evento si sia in ipotesi manifestato in più occasioni e a seguito della consumazione di singoli atti persecutori è non solo non discriminante, ma addirittura connaturato al fenomeno criminologico alla cui espressione la norma incriminatrice è finalizzata, giacché alla reiterazione degli atti corrisponde nella vittima un progressivo accumulo del disagio che questi provocano, fino a che tale disagio degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi nelle forme descritte nell’art. 612-bis c.p. E, sul piano della condotta, in considerazione del carattere necessitato di una sua reiterazione nel tempo, il delitto di atti persecutori deve essere ricondotto nell’ambito dei reati abituali così detti impropri, atteso che la fattispecie in esame si caratterizza per la presenza di una serie di condotte singolarmente idonee ad integrare reati perseguibili in via autonoma.

Diversamente dal reato permanente, però, nel quale la condotta offensiva si presenta unitaria e senza cesure temporali, nel reato abituale la condotta è caratterizzata da una pluralità di atti che, nel loro complesso, realizzano l’offesa al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice. In altri termini, mentre il reato permanente presuppone un’unica azione compiuta in violazione di legge che prosegue nel tempo e che assume autonoma valenza antigiuridica fin dal primo atto della sua esecuzione (Cass. pen. sez. VI, n. 3032 del 16/12/1986, N., CED Cass. 175315), nel reato abituale rilevano singole condotte, da sole non idonee ad integrare quel determinato reato, che finiscono per perdere la loro individualità nell’ipotesi del reato di atti persecutori, rilevando le condotte di minaccia o di molestia fino ad assumere una diversa configurazione giuridica, proprio a causa della loro reiterazione (Cass. pen. sez. V, n. 3042 del 09/10/2019, M., CED Cass. 278149; conf. Cass pen. sez. V, n. 6742 del 13/12/2018 (dep. 2019), CED Cass. 275490; nonché Cass. pen. sez. V n. 17000 del 11/12/2019 (dep. 2020), CED Cass. 27908).

Alla luce di tali osservazioni, siffatto orientamento, ribadito anche da pronunce successive (Cass. pen. sez. V, n. 17350 del 20/01/2020, CED Cass. 279401; Cass. pen. sez. V, n. 12055 del 19/01/2021, CED Cass. 281021), non ritiene condivisibile la tesi interpretativa secondo cui le condotte persecutorie diverse e ulteriori rispetto a quelle descritte nell’imputazione devono formare oggetto di specifica contestazione (così come affermato dalla citata Sez. 5, n. 45376/2019), se la persona offesa durante il dibattimento riferisca episodi ulteriori rispetto a quelli oggetto della denunzia-querela, verificatisi anche in epoca successiva alla data di presentazione della stessa (Cass. pen. sez. V, n. 15651 del 10/02/2020, CED Cass. 279154).

Questo perché quegli ulteriori episodi si inseriscono nella sequenza criminosa integrativa dell’abitualità del reato contestato e di essi il giudice può certamente tener conto ai fini dell’affermazione di responsabilità, senza violare il principio di correlazione tra accusa e sentenza, giacché l’imputato ha la possibilità di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (arg. da Cass. pen. sez. Unite, n. 36551 del 15/7/2010, C., CED Cass. 248051).

Tanto premesso, nel caso in esame, il Tribunale del riesame aveva condiviso la prospettazione dell’appellante Pubblico Ministero, secondo cui erroneamente il Tribunale aveva dichiarato la perdita di efficacia della misura, giacché, invece, il termine della fase dibattimentale sarebbe scaduto successivamente, applicandosi al delitto di cui all’art. 612-bis c.p., qui contestato con formula c.d. aperta, “dal ….all’attualità”, ed in presenza di ulteriori episodi commessi successivamente alla novella legislativa, il più grave trattamento sanzionatorio introdotto con la L. n. 69/2019, con conseguente applicazione del maggior termine di fase cautelare, pari, ai sensi degli artt. 303 lett. b) n. 2 e 308 c.p.p., a due anni.

Ricorrendo in Cassazione, invece, la difesa esponeva che la richiesta di rinvio a giudizio in questo processo era stata formulata prima della introduzione della L. n. 69/2019, che, aggravando il trattamento sanzionatorio per il delitto di atti persecutori, ha, conseguentemente, raddoppiato i termini di fase delle misure cautelari adottate in relazione al contestato delitto di cui all’art. 612-bis c.p; che, sulla base del richiamato orientamento (Cass. pen. sez. V, n. 45376/2019, CED Cass. 277255), al reato abituale non si applica il principio valido per i reati permanenti, secondo cui, nell’ipotesi di contestazione aperta, il giudizio penale di responsabilità può estendersi, senza necessità di alcuna modifica dell’imputazione, agli sviluppi della fattispecie emersi nell’istruttoria dibattimentale; che, nel caso di specie, a seguito di nuova querela della persona offesa, era emerso altro episodio persecutorio, per cui il PM aveva esercitato autonoma azione penale; che, in ogni caso, anche a volere seguire altro orientamento (Cass. pen. sez. V, n. 17350 del 20/01/2020, CED Cass. 279401), perché il giudizio di responsabilità possa estendersi anche alle ulteriori condotte persecutorie, rispetto a quelle cristallizzate nell’imputazione, occorre che esse siano state oggetto di accertamento giudiziale, ciò che, nel caso di specie, non è avvenuto, con la conseguenza che i fatti successivi all’entrata in vigore della L. n. 69/2019 erano estranei al presente giudizio, e non poteva applicarsi nel caso in scrutinio né il più severo regime sanzionatorio né il maggior termine cautelare.

La Cassazione, nell’accogliere la tesi difensiva, ha affermato il principio di cui in massima, osservando come il dato fattuale, costituito dalla presentazione di una nuova querela per altri fatti, che sono stati oggetto di autonoma imputazione in altro procedimento, realizzava il superamento del dato meramente processuale, costituito dalla fictio juris che portava a collocare la cessazione della condotta abituale all’epoca della sentenza di primo grado; l’autonoma iniziativa processuale dell’organo dell’Accusa, che aveva esercitato una diversa azione penale, aveva, invero, fatto confluire le condotte successivamente denunciate dalla persona offesa in altro procedimento, con la conseguenza che esse non potevano essere più ricondotte nello spettro dell’abitualità del reato di atti persecutori di cui al presente procedimento, dovendosi, piuttosto, ritenere chiusa l’imputazione alla data dell’esercizio dell’azione penale.

Da qui, pertanto, l’accoglimento del ricorso.

Riferimenti normativi:

Art. 612-bis c.p.

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