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“Confisca senza condanna”: nuove precisazioni della Corte costituzionale

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“Confisca senza condanna”: nuove precisazioni della Corte costituzionale

venerdì 27 gennaio 2023

di Corbetta Stefano Consigliere della Corte Suprema di Cassazione

Con la sentenza 24 gennaio 2023, n. 5, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate una serie di censure aventi ad oggetto l’art. 6 della L. n. 152/1975, che prevede la confisca obbligatoria in relazione a tutti i reati concernenti le armi, affermando la natura preventiva, e non punitiva, di tale misura, che può essere disposta anche con sentenza che dichiara l’estinzione del reato per oblazione, purché sia accertato il fatto-reato e l’imputato sia stato messo nella condizione di interloquire.

Corte costituzionale, sentenza 24 gennaio 2023, n. 5

Il caso

Il Tribunale ordinario di Milano sollevava due distinti gruppi di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6 della L. n. 152/1975, il quale invariabilmente prevede la confisca obbligatoria in relazione a tutti i reati concernenti le armi, tra cui l’ipotesi contravvenzionale, contestata all’imputato nel procedimento de quo, di avere omesso di comunicare all’Autorità di PS il trasferimento, dal vecchio al nuovo domicilio, delle armi dallo stesso legalmente denunciate in precedenza.

Con il primo gruppo di questioni, il rimettente censura il citato art. 6 – in riferimento agli artt. 27, comma 2, 42, comma 2, 11 e 117, comma 1, Cost., questi ultimi in relazione agli artt. 6, paragrafo 2, CEDU, 1 Prot. addiz. CEDU, 17 e 48 CDFUE – nella parte in cui impone al giudice di disporre la confisca delle armi anche in caso di estinzione del reato per oblazione.

Con il secondo gruppo di questioni, il giudice a quo denuncia la medesima disposizione – per contrasto con gli artt. 3, 27, 42, nonché 11 e 117, comma 1, Cost., questi ultimi in relazione agli artt. 1 Prot. addiz. CEDU, 17 e 49, paragrafo 3, CDFUE – nella parte in cui prevede come obbligatoria la confisca delle armi anche in relazione alla contravvenzione di cui dell’art. 38 TULPS.

I due gruppi di questioni si pongono tra loro in rapporto di subordinazione.

Il primo, infatti, dall’assunto relativo alla natura sostanzialmente “punitiva” della confisca obbligatoria prevista dalla disposizione censurata, assunto sulla cui base il rimettente ritiene violata la presunzione di non colpevolezza, garantita dall’art. 27, comma 2, Cost., dagli artt. 6, paragrafo 2, CEDU e 48 CDFUE; con conseguente ulteriore violazione del diritto di proprietà, tutelato dagli artt. 42 Cost., 1 Prot. addiz. CEDU e 17 CDFUE, e inciso dalla misura ablativa all’esame.

Il secondo gruppo di censure è invece prospettato in via subordinata: anche laddove non si riconoscesse la natura “punitiva” della confisca prevista dalla disposizione censurata e non si ritenesse, pertanto, costituzionalmente illegittima la sua applicazione mediante una sentenza che riconosce l’estinzione del reato per intervenuta oblazione, il rimettente ritiene che l’indefettibile obbligo di disporre tale misura ablatoria da parte del giudice nel caso di violazioni dell’art. 38 TULPS si risolva in una irragionevole e sproporzionata limitazione del diritto di proprietà, così come riconosciuto dalle medesime norme nazionali e sovranazionali poc’anzi menzionate, e in una conseguente ulteriore violazione degli artt. 3 e 27 Cost., nonché dell’art. 49, paragrafo 3, CDFUE.

La decisione della Corte

Le questioni sono state ritenute infondate.

Quanto al primo gruppo, la Corte ha censurato il presupposto interpretativo assunto dal rimettente, secondo cui la confisca prevista dalla norma in esame avrebbe natura “punitiva”, ritenendo, invece, che essa – come affermato dalla costante giurisprudenza di legittimità (sentenze Cass. pen. n. 6919/2022; Cass. pen. n. 32333/2019, relativa a omessa denuncia di trasferimento di armi; Cass. pen. n. 33982/2016) – abbia una “funzione essenzialmente preventiva”, come si desume dalla specifica finalità che persegue nel sistema normativo di controllo della circolazione delle armi da fuoco.

La Corte, difatti, ha evidenziato che la ratio dell’obbligo di comunicare all’autorità di pubblica sicurezza il trasferimento di armi, in precedenza regolarmente denunciate, risiede nella necessità di “garantire la piena tracciabilità dell’arma, secondo quanto richiesto dal diritto dell’Unione europea, e in particolare dalla direttiva 2021/555/UE, relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione delle armi”.

Il mancato adempimento dell’obbligo di comunicazione del trasferimento – e dunque del luogo in cui l’arma, pur in precedenza legittimamente detenuta, si trova attualmente – “frustra l’obiettivo, perseguito dal legislatore italiano in adempimento di un preciso obbligo europeo, di avere contezza in ogni momento dell’ubicazione dell’arma; obiettivo che è a sua volta funzionale non solo a prevenire possibili utilizzi illeciti intenzionali dell’arma da parte del detentore, ma anche ad assicurare che l’arma sia detenuta in luogo idoneo, onde minimizzare il rischio che di essa possano impossessarsi terze persone, per farne a loro volta un uso illecito, anche solo involontariamente (come nel caso in cui l’arma finisca nelle mani di un bambino)”.

Di conseguenza, la mancata denuncia del luogo in cui l’arma si trova crea “una situazione di pericolo, particolarmente allarmante in relazione alle gravissime conseguenze per la vita umana e per l’ordine pubblico che il suo uso illecito può provocare; pericolo che la misura ablativa in esame mira per l’appunto a neutralizzare”.

Da tale conclusione deriva, dunque, l’infondatezza delle censure articolate dal rimettente, che assumono la violazione della presunzione di non colpevolezza (e, in conseguenza, dello stesso diritto di proprietà) muovendo proprio dal contrario presupposto della natura essenzialmente punitiva della confisca in parola.

La Corte ha ritenuto non fondate anche il secondo gruppo di censure.

In primo luogo, è stata ritenuta infondata la questione formulata in relazione all’art. 27 Cost., trattandosi di un parametro costituzionale inconferente qualora si muova dal presupposto – assunto dallo stesso rimettente a base del secondo gruppo di questioni – della natura preventiva, e non punitiva, della misura stessa, in quanto tale non soggetta a quei principi di personalità della responsabilità penale e di necessaria funzione rieducativa posti a fondamento del principio di proporzionalità delle pene.

Non fondata è altresì ritenuta la censura formulata in riferimento agli artt. 11 e 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, dal momento che anche quest’ultima norma è in radice inapplicabile a misure non aventi carattere punitivo, come la confisca di cui è causa.

La Corte ha sottolineato che l’indubbia incidenza della confisca in esame sul patrimonio dell’interessato impone invece una puntuale verifica del suo carattere proporzionato alla luce dei parametri costituzionali e sovranazionali che tutelano il diritto di proprietà, parametri che, tuttavia, sono stati ritenuti rispettati.

La Corte ha ribadito che la finalità perseguita dalla disciplina in esame – ossia quella di assicurare in ogni momento la tracciabilità delle armi legittimamente presenti nel territorio italiano – “è perseguita dal legislatore anche mediante la previsione della confisca obbligatoria delle armi, pur in precedenza regolarmente denunciate e possedute in forza di licenza di porto d’armi, allorché il loro possessore ometta di comunicare il loro trasferimento in una nuova sede”. In un caso del genere, “il legislatore presume una situazione di pericolo per l’ordine pubblico connessa al perdurante possesso delle armi in capo a chi abbia violato l’obbligo di comunicarne l’avvenuto trasferimento, e il connesso obbligo di fornire assicurazioni circa la sussistenza delle necessarie condizioni di sicurezza della nuova collocazione; situazione di pericolo da neutralizzarsi, appunto, mediante la confisca delle armi stesse”.

Se è vero che l’ablazione dell’arma costituisce una rilevante limitazione del diritto di proprietà, tutelato a livello costituzionale e sovranazionale, tale limitazione, tuttavia, ad avviso della Corte appare inidonea, necessaria e proporzionata in senso stretto rispetto alla finalità legittima perseguita.

Quanto al primo aspetto, la Corte ha evidenziato che la violazione delle norme che impongono la costante tracciabilità delle armi rivela, infatti, una grave trascuratezza in capo al loro detentore, il quale viene ritenuto dal legislatore, in maniera non irragionevole, non più idoneo a continuare detenerle in condizioni di sicurezza, ragione per cui “la confisca delle armi appare rimedio idoneo per rimuovere tale situazione di pericolo.

In relazione al secondo profilo, la Corte ha sottolineato come, a fronte della gravità delle conseguenze che possono derivare dalla mancata conservazione delle armi in condizioni di sicurezza, “non eccede manifestamente lo scopo di tutela perseguito dal legislatore una disciplina che preveda l’automatica confisca delle armi medesime, senza consentire al loro detentore di dimostrare, caso per caso, l’insussistenza dei pericoli presunti in via generale dal legislatore”.

Quanto, infine, al terzo profilo inerente alla proporzione tra il pregiudizio derivante all’interessato dalla misura in esame e le finalità che quest’ultima persegue, la Corte ha dato risalto, da un lato, alla “estrema gravità delle conseguenze che possono derivare da un uso improprio delle armi a carico della vita stessa dei consociati, che l’ordinamento ha il dovere di tutelare in forza dell’art. 2 Cost.”; e, dall’altro, alla circostanza che “l’acquisto e l’esercizio del diritto di proprietà delle armi sono sottoposti a speciali limiti e controlli, che mirano a schermare il più possibile i rischi per l’ordine pubblico ad essi necessariamente connessi”.

Dopo aver facilmente fugato gli ulteriori dubbi di contrasto, prospettati dal rimettente, con l’art. 3 Cost. sia sotto il profilo dell’irragionevole equiparazione di trattamento tra situazioni diverse o, all’opposto, di irragionevoli disparità di trattamento tra situazioni analoghe, sia sotto il profilo “intrinseco”, la Corte ha fatto un’importante puntualizzazione, affermando che, quando la confisca sia imposta dal giudice con la sentenza che dichiara l’estinzione per intervenuta oblazione della contravvenzione di cui agli artt. 17 e 38, comma 7, TULPS, “una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina censurata esige che tale provvedimento possa essere pronunciato soltanto in esito all’accertamento dei presupposti di legge che giustificano l’applicazione della misura”.

Ciò significa che la valutazione di proporzionalità e ragionevolezza di una misura che incide in maniera potenzialmente assai gravosa sul diritto di proprietà dipende “anche dalla presenza di un adeguato meccanismo di tutela giurisdizionale, che garantisca all’interessato la possibilità di contestare in maniera effettiva la sussistenza dei presupposti della misura”, come peraltro affermato dalla costante giurisprudenza della Corte EDU (per tutti, Corte EDU, sentenza GIEM), secondo la quale la legittimità di qualsiasi misura che incida sul diritto di proprietà – a prescindere dalla sua natura penale o non – dipende “dalla presenza di procedimenti in contraddittorio coerenti con il principio di parità delle armi, nei quali l’interessato sia posto in condizione di contestare in maniera effettiva la misura stessa”.

I limiti della proporzionalità e della ragionevolezza sono perciò rispettati alla precisa condizione che la violazione, sulla quale si fonda la presunzione che sta alla base della disposizione censurata, deve essere “accertata dal giudice che applica la confisca, in un procedimento nel quale le ragioni dell’imputato siano ascoltate e valutate nel contradditorio con il pubblico ministero”.

Una tale possibilità non è logicamente incompatibile con l’intervenuta estinzione del reato, come si è addirittura ritenuto in relazione a una misura di natura “punitiva” come la confisca urbanistica, la quale può essere applicata anche con la sentenza dichiarativa della prescrizione (sentenza Corte cost. n. 49/2015, nonché Cass. pen. sez. Unite, sentenza 30/04/2020, n. 13539), purché “il giudice accerti il presupposto della misura stessa, in un procedimento in contraddittorio con l’imputato”.

Una conclusione del genere vale, evidentemente, anche nell’ambito del peculiare procedimento di oblazione; investito di una richiesta di oblazione ex art. 162-bis c.p. per una contravvenzione per la quale sia prevista l’obbligatoria applicazione della confisca ora all’esame, il giudice deve “accertare, nel contraddittorio tra le parti, la sussistenza dei presupposti che ne giustificano l’applicazione: e dunque l’effettiva commissione del fatto di reato da parte dell’imputato, in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi, tenendo conto delle eventuali allegazioni difensive dell’imputato stesso”; e “di tutto ciò dovrà essere dato conto nella motivazione della sentenza di cui all’art. 141, comma 4, norme att. c.p.p.”.

Anche il secondo gruppo di questioni di legittimità costituzionale, sollevate in riferimento all’art. 3 Cost. e agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi in relazione all’art. 17 CDFUE e all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, risulta complessivamente infondato, “a condizione che la disciplina censurata sia interpretata in modo da assicurare che il provvedimento di confisca sia pronunciato in esito all’accertamento, da parte del giudice, dei presupposti di legge che giustificano la misura”.

Esito del ricorso:

Dichiarazione di infondatezza

Riferimenti normativi:

Art. 6, L. n. 152/1975

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