fbpx
Lun Mer Ven 15:30 -19:30

Cosciente partecipazione al procedimento: rileva lo stato “psicofisico” dell’imputato

Avvocato Penalista e Cassazionista Roma  > News >  Cosciente partecipazione al procedimento: rileva lo stato “psicofisico” dell’imputato
0 Comments

 

Procedura penale

Garanzie difensive

Cosciente partecipazione al procedimento: rileva lo stato “psicofisico” dell’imputato

mercoledì 12 aprile 2023

di Corbetta Stefano Consigliere della Corte Suprema di Cassazione

Con la sentenza n. 65 del 7 aprile 2023, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 72-bis, comma 1, c.p.p., nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché a quello «psicofisico».

Corte costituzionale, sentenza 7 aprile 2023, n. 65

Il caso

Il Tribunale di Lecce sollevava, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale, in via principale, dell’art. 72-bis c.p.p., per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che il giudice dichiari non doversi procedere nei confronti dell’imputato, anche nei casi in cui la sua irreversibile incapacità di partecipare coscientemente al processo discenda da patologie fisiche e non mentali; in via subordinata, dell’art. 159, ultimo comma, c.p., nella parte in cui non prevede che la sospensione del decorso della prescrizione, nel caso in cui dipenda da sospensione del processo per impossibilità di procedere in assenza dell’imputato, non operi anche nelle ipotesi in cui tale sospensione sia imposta dall’impossibilità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo.

Il rimettente espone di dover giudicare, per un’imputazione relativa a reati edilizi, una persona affetta da grave malattia fisica (SLA), che ne aveva progressivamente determinato la paralisi, privandola dell’uso del linguaggio e della stessa autonomia respiratoria; per tale motivo, fin dal maggio del 2016 il processo era stato rinviato per legittimo impedimento, ai sensi dell’art. 420-ter c.p.p., in attesa della cessazione della patologia, ma che le evidenze sanitarie ne hanno ormai attestato l’irreversibilità.

Ricorrerebbe, quindi, una situazione analoga a quella che giustifica la definizione per improcedibilità di cui all’art. 72-bis c.p.p., norma tuttavia espressamente dettata per l’incapacità processuale dell’imputato derivante da patologia mentale, quindi insuscettibile di applicazione all’incapacità irreversibile causata da patologia fisica. Ad avviso del rimettente, ciò si risolverebbe in una violazione dell’art. 3 Cost., per l’irragionevole disparità di trattamento tra fattispecie connotate dalla medesima esigenza, far cessare cioè un processo che, destinato a non essere mai celebrato, assorbe inutilmente risorse pubbliche e altrettanto inutilmente infligge all’imputato una sofferenza psicologica aggiuntiva a quella derivante da una situazione di salute già compromessa.

In ordine alla questione subordinata, il giudice a quo osserva che dell’art. 159, ultimo comma, c.p. violerebbe, parimenti, l’art. 3 Cost., in quanto non estende a favore dell’imputato affetto da una siffatta patologia fisica il limite massimo di durata della sospensione del corso della prescrizione viceversa fissato riguardo all’ipotesi della sospensione del processo per assenza.

La decisione della Corte

La Corte ha dichiarato fondata la questione principale.

La Corte ha preso le mosse dalla propria giurisprudenza, che, sin dal 1992, ha individuato nel diritto dell’imputato all’autodifesa – e nelle garanzie in cui esso si articola – uno dei tratti qualificanti del nuovo codice di rito.

Quest’indirizzo è stato inaugurato dalla sentenza Corte cost. n. 340/1992, la quale, nella prospettiva dell’art. 24 Cost., aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 70, comma 1, c.p.p. limitatamente alle parole «sopravvenuta al fatto», le quali, riferite all’infermità mentale quale causa di sospensione del processo, esponevano l’imputato al rischio di subire una condanna in condizioni di minorata difesa, “nei casi in cui l’infermità di mente, non coincidente con la totale incapacità di intendere o di volere, risalga al tempus commissi delicti e perduri nel corso del procedimento”.

In una pronuncia di poco successiva, si era constatata “l’accentuazione del profilo della tutela della difesa personale perseguita dal codice di procedura penale del 1988”, emergente dal fatto che l’art. 71 del nuovo codice richiede quale presupposto per la sospensione del processo “uno stato mentale che non consente all’imputato di partecipare coscientemente al processo stesso, e non, come era invece nelle previsioni del codice abrogato, lo stato di infermità di mente tale da escludere la capacità di intendere e di volere” (sentenza Corte cost. n. 281/1995).La Corte aveva sottolineato l’essenzialità dell’autodifesa, autonoma e ulteriore rispetto alla difesa tecnica, “soprattutto nell’ambito di quegli atti che richiedono la diretta partecipazione dell’imputato (si pensi all’interrogatorio e all’esame ed alle conseguenti facoltà esercitabili al riguardo)” (ancora sentenza Corte cost. n. 281/1995).

Nella stessa direzione si colloca la sentenza Corte cost. n. 341/1999, la quale, nell’estendere all’assistenza gratuita di un interprete la tutela approntata dall’art. 119 c.p.p. circa la partecipazione processuale del sordo e del muto, ha inteso garantirne l’effettività, segnatamente “nelle fasi che l’ordinamento affida al principio dell’oralità”, occorrendo infatti assicurare “il diritto dell’accusato di essere messo personalmente, immediatamente e compiutamente a conoscenza di quanto avviene nel processo che lo riguarda, e così non solo dell’accusa mossagli, ma anche degli elementi sui quali essa si basa, delle vicende istruttorie e probatorie che intervengono via via a corroborarla o a smentirla, delle affermazioni e delle determinazioni espresse dalle altre parti e dall’autorità procedente; nonché, conseguentemente, il diritto dell’imputato di svolgere la propria attività difensiva, anche in forma di autodifesa, conformandola, adattandola e sviluppandola in correlazione continua con le esigenze che egli stesso ravvisi e colga a seconda dell’andamento della procedura, ovvero comunicando con il proprio difensore”.

Ancora, la sentenza Corte cost. n. 39/2004, pur dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 70, 71 e 72 c.p.p., sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., ha osservato che, “anche se l’art. 70 letteralmente si riferisce ad ipotesi di ‘infermità mentale’, il sistema normativo è chiaramente volto a prevedere la sospensione ogni volta che lo ‘stato mentale’ dell’imputato ne impedisca la cosciente partecipazione al processo”, la quale “non può intendersi limitata alla consapevolezza dell’imputato circa ciò che accade intorno a lui, ma necessariamente comprende anche la sua possibilità di essere parte attiva nella vicenda e di esprimersi, esercitando il suo diritto di autodifesa”.

Da tali premesse, si è desunto che, “quando non solo una malattia definibile in senso clinico come psichica, ma anche qualunque altro stato di infermità renda non sufficienti o non utilizzabili le facoltà mentali (coscienza, pensiero, percezione, espressione) dell’imputato, in modo tale da impedirne una effettiva partecipazione – nel senso ampio che si è detto – al processo, questo non può svolgersi”.

In altri termini, la “cosciente partecipazione” – formula attorno alla quale ruota l’intero sistema degli artt. 70 e seguenti c.p.p. – è un’endiadi, in quanto un imputato che non partecipa con l’insieme delle facoltà di “coscienza, pensiero, percezione, espressione” resta concretamente estraneo al processo che lo riguarda.

Ciò posto, la Corte ha respinto la tesi, patrocinata dalla difesa statale, che assume la radicale eterogeneità tra infermità mentale e infermità fisica, trattandosi di una distinzione che postula che sia sempre possibile analizzare le manifestazioni patologiche in termini rigorosamente binari, senza tener conto della diffusione delle malattie degenerative, le quali hanno origine fisica e tuttavia possono determinare ugualmente l’impossibilità di una partecipazione attiva al processo.

Di conseguenza, il riferimento esclusivo alla sfera psichica dell’imputato, determina “un’irragionevole disparità di trattamento tra l’imputato, il quale non possa esercitare l’autodifesa in modo pieno a causa di un’infermità mentale stricto sensu, e quello che versi nella medesima impossibilità per un’infermità di natura mista, anche di origine fisica, la quale tuttavia comprometta anch’essa (..) le facoltà di coscienza, pensiero, percezione, espressione”.

La Corte ha individuato nella sostituzione nel relativo testo alla parola «mentale» la parola «psicofisico» lo strumento per ricondurre la norma censurata a legittimità costituzionale, sotto il profilo dell’art. 3 Cost.

Di conseguenza, anche per patologie diverse da quelle definibili in termini nosografici come malattie mentali “occorre che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere qualora sussistano le condizioni indicate dall’art. 72-bis c.p.p., cioè qualora lo stato psicofisico dell’imputato sia tale da impedirne in modo irreversibile la cosciente partecipazione al procedimento nel senso del pieno esercizio delle facoltà di autodifesa e non ricorrano i presupposti per l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca”.

Laddove, invece, siano presenti tutte le condizioni indicate dalla norma, l’improcedibilità va dichiarata senza che occorra disporre la sospensione del procedimento agli effetti dell’art. 71 c.p.p., né attendere la maturazione del termine di prescrizione del reato. La Corte ha peraltro evidenziato come, ai sensi dell’art. 345, comma 2, c.p.p., l’azione penale è riproponibile pure dopo che sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere in ragione dello stato psicofisico dell’imputato, se questo stesso stato incapacitante «viene meno o si accerta che è stato erroneamente dichiarato».

La Corte ha perciò dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 72-bis, comma 1, c.p.p. nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché a quello «psicofisico».

In via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della L. 11 marzo 1953, n. 87 è stata dichiarata altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 70, comma 1, c.p.p., nella parte in cui si riferisce all’infermità «mentale», anziché a quella «psicofisica»; dell’art. 71, comma 1, c.p.p., nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché a quello «psicofisico»; dell’art. 72, comma 1, c.p.p., nella parte in cui si riferisce allo stato «di mente», anziché a quello «psicofisico», e, nel comma 2, nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché a quello «psicofisico».

Esito del ricorso:

Dichiarazione di incostituzionalità parziale

Riferimenti normativi:

Art. 72-bis, co. 1, c.p.p.

Condividi

Invia con WhatsApp