Reati contro la persona
Reati contro la persona
Maltrattamenti e stalking nella recente giurisprudenza di legittimità
giovedì 23 marzo 2023
di Carioli Alberto Avvocato nel Foro di Padova, Dottorando di ricerca in Diritto penale nell’Università degli studi Europea di Roma
La Corte di cassazione, sentenza 3 marzo 2023, n. 9187, delimita i confini tra le due figure delittuose di maltrattamenti contro familiari e conviventi e atti persecutori, fornendo utili spunti interpretativi in una materia caratterizzata da forti incertezze interpretative.
Cassazione penale, Sez. VI, sentenza 3 marzo 2023, n. 9187
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI | |
Conformi | Sull’applicabilità dell’art. 572 c.p. ai maltrattamenti nei confronti del coniuge separato, ancorché non convivente: |
Difformi | Sulla nozione di “convivenza”: |
I fatti sub iudice (i.e. violenze contro il partner di una relazione sentimentale) si dipanano in due distinti periodi: il primo periodo, dal novembre 2016 al marzo 2019 (con una breve interruzione), è caratterizzato dalla convivenza dei due; il secondo, dal marzo 2019 in avanti, è segnato dal trasferimento della persona offesa, che determina la fine della convivenza.
Tutta la relazione è caratterizzata da condotte violente nei confronti della donna.
La questione giuridica su cui si incentra la pronuncia in commento è il rapporto tra il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi (di cui all’art. 572 c.p.), più grave, e quello di atti persecutori (art. 612 bis c.p.).
Fino al 2013 la distinzione tra le due fattispecie di reato era chiara e il rapporto tra di esse poteva essere riassunto così: il reato di maltrattamenti, che ruotava intorno al dato dell’attualità del vincolo, trovava applicazione per le condotte consumate mentre la relazione affettiva era in atto; il reato di atti persecutori (nella forma aggravata di cui all’art. 612-bis, comma 2 c.p.) viceversa, trovava applicazione nei casi in cui le condotte fossero state consumate dopo la cessazione del vincolo o conclusa la convivenza.
Il rapporto è divenuto più complesso dopo che il D.L. 14 agosto 2013, n. 93 (convertito con modificazioni dalla L. 15 ottobre 2013, n. 119) ha modificato l’art. 612-bis, comma 2 c.p., estendendo il novero dei soggetti attivi del delitto di atti persecutori al coniuge – mentre il rapporto di matrimonio è ancora esistente – e alla persona legata all’offeso da relazione affettiva, anch’essa sussistente al momento del fatto.
L’ampliamento dell’operatività dell’aggravante corrisponde all’intenzione del Legislatore di punire con una pena maggiore tutte le condotte che scaturiscano da un rapporto affettivo (sia esso formalizzato col matrimonio o no) sia cessato, sia attuale rispetto al momento in cui la condotta è perpetrata. Ciò corrisponde, tra l’altro, all’adempimento di obblighi derivanti dall’adeguamento del diritto interno al diritto internazionale convenzionale e pattizio (e.g. il recepimento degli obblighi scaturenti dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica dell’11 maggio 2011, sottoscritta dalla Repubblica Italiana il 27 settembre 2012 e ratificata con L. 27 giugno 2013, n. 77).
La novella non ha previsto un adeguato raccordo con le disposizioni codicistiche già esistenti e ha causato una parziale sovrapposizione del campo di applicazione delle due norme.
Nulla quaestio quanto ai fatti illeciti commessi dall’ex coniuge dopo lo scioglimento del vincolo matrimoniale (i.e. divorzio): essi ricadono pacificamente nell’alveo di applicazione dell’art. 612-bis c.p., con l’aggravante di cui al secondo comma (e non si applicherà più l’art. 572 c.p. che invece fa riferimento alle persone «della famiglia», qualificazione giuridica venuta meno dopo che matrimonio ha cessato di esistere in iure). Le condotte commesse in costanza del matrimonio o in danno del coniuge separato, invece, sono punite sotto l’art. 572 c.p., giacché la separazione dispensa dagli obblighi di convivenza e fedeltà, ma lascia intatti gli altri doveri discendenti dall’art. 143, comma 2 c.c., cosicché il coniuge separato rimane «persona della famiglia».
Per superare l’incertezza applicativa causata dalla sovrapposizione tra le due fattispecie incriminatrici, la sentenza commentata suggerisce che il giudice del merito svolga un doppio accertamento (cfr. punto 12.4 del considerato in diritto): uno preliminare circa l’esistenza di una convivenza (nei termini indicati nella sentenza medesima) e uno successivo sull’effettiva interruzione della convivenza.
La cessazione della convivenza, a parere del Collegio, è il crinale lungo il quale corre la distinzione tra le incriminazioni: l’art. 612-bis c.p. troverà applicazione cessata la convivenza, l’art. 572 c.p. mentre la convivenza è ancora in atto.
Tuttavia, la vera novità cui apre la pronuncia commentata risiede nella nozione di “convivenza” che si rinviene nel punto 10 del considerato in diritto, cui la Corte dedica diverse pagine nel tentativo di ricostruirne la genesi storica e l’evoluzione giuridica, spaziando dalle pronunce più risalenti della Corte costituzionale (Corte cost. sent. n. 237 del 18/11/1986) sino alle più recenti definizioni legali (contenute sia nell’art. 1, comma 36 della L. 20 maggio 2016, n. 76, sia nell’art. 1, comma 18, lett. b) della L. 27 settembre 2021, n. 134) che hanno trasformato in diritto positivo l’elaborazione giurisprudenziale precedente.
L’approdo finale del Collegio rappresenta il quid novi della sentenza in commento: è “convivenza” la decisione spontanea e liberamente revocabile volta ad una comunione materiale e spirituale di vita (che si differenzia da altre forme di condivisione, quali il matrimonio o l’unione civile, solo per la mancata adesione a vincoli giuridici).
Gli indicatori dell’esistenza della convivenza sono elencati nel punto 10.5 del considerato in diritto (tra gli altri vi sono: la condivisione di un’intimità che si traduce in un legame sentimentale stabile, la scelta di avere figli, la reciproca assistenza economica con la messa a disposizione di un patrimonio in comune, la coabitazione, etc.): singolarmente considerati, sono sforniti di valenza indiziaria, ma la acquisiscono nella loro valutazione congiunta.
Il rapporto tra “convivenza” e “coabitazione” delineato nella sentenza offre l’occasione per qualche considerazione conclusiva. Occorre partire dall’affermazione contenuta nel punto 10.5 del considerato in diritto: «[l]a coabitazione può essere un indice importante per individuare una convivenza affettiva stabile […] ma non è un requisito che la connota».
Senza scendere in una puntigliosa esegesi dell’art. 572 c.p., la decisione de qua non pare convincente nella parte in cui pretende di distinguere i due concetti di “coabitazione” e “convivenza”. Nella stessa lingua italiana, la voce “convivenza” legittimerebbe una conclusione diametralmente opposta rispetto a quella adottata dalla Suprema Corte: ad esempio, per il Grande Dizionario della Lingua Italiana (di S. Battaglia), “convivenza” significa «vivere insieme con altri in uno stesso luogo; condizione reciproca di quanti vivono insieme; l’insieme delle persone che vivono nello stesso ambiente».
Tanto più dopo la recente sentenza n. 98/2021 della Corte costituzionale che ha affrontato una possibile “interpretazione estensiva” dell’art. 572 c.p. «in grado di attrarre nel suo ambito applicativo le condotte maltrattanti compiute in un “contesto affettivo protetto”», valorizzando, secondo il Giudice remittente, «ben più del dato formale della condivisione continuativa di spazi fisici, il dato sostanziale della condivisione di progetti di vita» (punto 1.1. del ritenuto in fatto, settimo e ottavo paragrafo).
Ergo, la possibilità di punire ai sensi dell’art. 572 c.p. fatti commessi contro il partner non convivente di una relazione affettiva non formalizzata.
In quell’occasione (Corte cost., sent. n. 98/2021), infatti, il Giudice delle leggi fu perentorio: constatò la difficoltà di sussumere nell’art. 572 c.p. le condotte abusive poste in essere nel cotesto di una relazione affettiva in assenza di convivenza (punto 2.4. del considerato in diritto), ma soprattutto ricordò che «[i]l divieto di analogia non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali», in quanto «è il testo della legge […] che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore» (punto 2.4. del considerato in diritto, terzo paragrafo). Diversamente – per concludere con le parole della Corte costituzionale – «l’applicazione dell’art. 572 c.p. in casi siffatti […] apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico […] ma comunque preclusa dall’art. 25, secondo comma, Cost.».
Riferimenti normativi: