Penale
Armi
Legittima la distruzione delle armi confiscate
martedì 28 novembre 2023
di Corbetta Stefano Consigliere della Corte Suprema di Cassazione
La Corte costituzionale, con la sentenza 24 novembre 2023, n. 208, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6L. n. 152/1975, nella parte in cui prevede che “le armi comuni e gli oggetti atti ad offendere confiscati, ugualmente versati alle direzioni di artiglieria, devono essere destinati alla distruzione, salvo quanto previsto dal nono e decimo comma dell’art. 32 della L. 18 aprile 1975, n. 110”.
Corte costituzionale, sentenza 24 novembre 2023, n. 208
Il caso
Il GIP del Tribunale di Macerata, in funzione di giudice dell’esecuzione, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 6L. n. 152/1975, nella parte in cui prevede che “le armi comuni e gli oggetti atti ad offendere confiscati, ugualmente versati alle direzioni di artiglieria, devono essere destinati alla distruzione, salvo quanto previsto dal nono e decimo comma dell’art. 32 della L. 18 aprile 1975, n. 110”.
Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe l’art. 3 Cost., in quanto non vi sarebbe alcun ragionevole motivo per sottrarre gli oggetti considerati alla disciplina generale prevista dall’art. 86 norme att. c.p.p. e dagli artt. 149 e ss. seguenti TU spese di giustizia, in base alla quale i beni confiscati sono venduti con acquisizione all’erario del ricavato, salvo che essi abbiano interesse scientifico o pregio di antichità o di arte.
La distruzione, imposta dalla norma denunciata, di ogni arma (propria o impropria) confiscata, anche se di valore – esclusa l’ipotesi eccezionale del riconoscimento di un suo interesse storico o artistico – non sarebbe in effetti giustificabile:
- a) né con i limiti di commerciabilità della cosa, discutendosi di beni suscettibili di vendita e detenzione lecita, ove l’acquirente sia munito di titolo idoneo, e addirittura senza necessità di alcun titolo, quanto agli oggetti atti ad offendere;
- b) né con l’esigenza di evitare che l’originario detentore rientri in possesso del bene, giacché, se questi è stato privato del titolo abilitativo all’acquisto o alla detenzione (anche a seguito dell’illecito commesso), non potrà riacquistare le armi, mentre, se è ancora abilitato, potrà acquistarne altre, anche più letali, in un’armeria o da un privato, ovvero – quando si tratti di oggetti atti ad offendere – recandosi in una qualsiasi rivendita del settore;
- c) né, ancora, con l’intento di limitare le armi in circolazione, in quanto nessun limite è posto alla produzione e alla commercializzazione di armi, e tanto meno di oggetti atti ad offendere;
- d) né, infine, con l’opportunità di evitare morbose ricerche di armi impiegate in fatti di particolare risonanza, trattandosi di evenienza marginale che evoca preoccupazioni etico-morali delle quali lo Stato non dovrebbe farsi carico, e rispetto alla quale potrebbe operare, comunque sia, il potere, attribuito al giudice dall’ 86 norme att. c.p.p., di disporre la distruzione della cosa se la vendita non è opportuna.
La decisione della Corte
La questione è stata dichiarata non fondata.
Come di consueto, la Corte ha proceduto a una sintetica ricostruzione del panorama normativo e giurisprudenziale in cui si colloca la norma oggetto di censura.
La disciplina generale della destinazione delle cose oggetto di confisca penale è offerta dall’art. 86 norme att. c.p.p. e da alcune delle disposizioni contenute nel Titolo III della Parte IV TU spese di giustizia. In base ad essa, la destinazione “ordinaria” dei beni confiscati è la vendita.
Sono tuttavia previste alcune eccezioni.
In primo luogo, se i beni hanno interesse scientifico o pregio di antichità o di arte, prima di procedere alla vendita occorre avvisare il Ministero della giustizia, che può disporre l’assegnazione delle cose al museo criminale presso il Ministero o altri istituti (art. 152TU spese di giustizia).
Inoltre, il giudice può disporre la distruzione delle cose confiscate “se la vendita non è opportuna” (art. 86, comma 2, norme att. c.p.p.), formula che ricomprende anche i casi in cui l’alienazione risulti tecnicamente difficoltosa o antieconomica.
Infine, lo stesso art. 86, comma 1, norme att. c.p.p., come già ricordato, fa, inoltre, espressamente salva l’ipotesi in cui per le cose confiscate sia prevista una specifica destinazione.
Fra queste rientra anche quella delineata dal censurato art. 6 della L. n. 152/1975, che, al comma 1, in relazione “a tutti i reati concernenti le armi”, prevede la confisca obbligatoria di ogni oggetto atto ad offendere, nonché delle munizioni e degli esplosivi.
“Si tratta – ha chiarito la Corte – di misura connotata da una finalità essenzialmente preventiva, e non già strettamente sanzionatoria, essendo volta a neutralizzare, mediante la privazione della disponibilità della res da parte del suo detentore, una situazione di pericolo, particolarmente allarmante in relazione alle gravissime conseguenze per la vita umana e per l’ordine pubblico che l’uso illecito degli oggetti in questione può provocare” (cfr. Corte cost. sent. n. 5/2023).
Nei commi successivi, l’art. 6 prevede un’articolata disciplina speciale sulla destinazione dei beni confiscati, variamente calibrata secondo la loro tipologia.
In particolare, essendo oggetto di censura da parte del remittente, a norma del comma 3, le armi comuni – ossia le armi proprie, quelle, cioè, «la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona» (art. 585, comma 2, n. 1, c.p. e art. 30, comma 1, n. 1, R.D. n. 773/1931, – e gli oggetti atti ad offendere – ossia le armi improprie – “ugualmente versati alle direzioni di artiglieria, devono essere destinati alla distruzione, salvo quanto previsto dal nono e decimo comma dell’art. 32 della L. 18 aprile 1975, n. 110”, i quali stabiliscono che le armi antiche e artistiche non possono essere distrutte senza il preventivo consenso di un esperto nominato dal sovrintendente per le gallerie competente per territorio e, se riconosciute di interesse storico e artistico, debbono essere destinate alle raccolte pubbliche indicate dalla sovrintendenza.
Ai sensi dell’art. 33L n. 110/1975 – come riformulato dall’art. 10-bisD.L. n. 152/1991 – è fatto divieto in assoluto, sotto comminatoria di sanzioni penali, di vendere nelle pubbliche aste, non soltanto di armi da guerra e tipo guerra, ma anche di armi comuni da sparo.
A fronte di tale intervento normativo, in forza della norma censurata, le armi comuni e gli oggetti atti ad offendere confiscati devono essere indefettibilmente versati alla direzione di artiglieria competente, la quale dovrà destinarli alla distruzione, ove non consti un interesse storico o artistico alla conservazione in raccolte pubbliche: rimanendo esclusa, in ogni caso, la possibilità di una loro vendita da parte delle cancellerie.
La Corte ha evidenziato che, successivamente all’ordinanza di rimessione, il D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, in vigore dal 30 dicembre 2022, ha modificato l’art. 86 norme att. c.p.p., evocato dal rimettente come tertium comparationis, e tuttavia tali modifiche sono ininfluenti ai fini della confisca di beni specifici.
Tutto ciò premesso, la questione non è stata ritenuta fondata.
La Corte ha evidenziato che “il diverso trattamento riservato alle armi comuni e agli oggetti atti ad offendere rispetto alla generalità delle altre cose colpite da confisca penale (…) trova giustificazione nella particolare natura degli strumenti considerati”.
Si è in presenza, infatti, “di oggetti intrinsecamente pericolosi, stante l’estrema gravità delle conseguenze che possono derivare da un loro improprio utilizzo, le quali incidono su beni giuridici primari – la vita umana, la sicurezza e l’incolumità pubblica – che lo Stato ha il dovere costituzionale di tutelare”
La ratio della norma censurata appare agevolmente identificabile nella volontà di evitare che siano proprio gli organi dello Stato a rimettere in circolazione, tramite vendita al miglior offerente (e magari, quindi, a prezzi “di realizzo”), armi che lo Stato stesso ha confiscato – non di rado con seri rischi per le forze di polizia – in un’ottica di prevenzione dei gravissimi fatti realizzabili mediante l’uso di tali oggetti”.
In altri termini, la norma in esame esprime “una avvertita esigenza di coerenza, a fronte della quale il legislatore ha ritenuto che debba restare recessivo l’interesse meramente economico dello Stato a trarre profitto dalla misura ablativa, esitando al pubblico le cose da essa colpite secondo le regole generali”.
Si tratta di una scelta frutto dell’esercizio della discrezionalità affidata al Legislatore nel bilanciamento fra i contrapposti interessi coinvolti dalla disciplina delle armi, che non trasmoda non manifesta irragionevolezza delle soluzioni adottate.
Esito del ricorso:
Dichiarazione di infondatezza
Riferimenti normativi: