Querela: la semplice denuncia non è sufficiente né la volontà di punire può intervenire fuori termine
a cura della Redazione Wolters Kluwer
Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la condanna inflitta dal tribunale ad un uomo per il reato di furto, la Corte di Cassazione penale, Sez. IV, con la sentenza 17 gennaio 2024, n. 1964 – nell’accogliere la tesi difensiva secondo cui il procedimento aveva avuto origine da una denuncia orale all’interno della quale era del tutto assente la volontà di perseguire il colpevole – ha ribadito il principio secondo cui la denuncia – e cioè la comunicazione all’Autorità dell’avvenuta consumazione di un fatto di reato – non è sufficiente a qualificare il relativo atto come querela, ove quest’ultimo non contenga l’univoca manifestazione, da parte del soggetto legittimato, della volontà di chiedere la punizione del colpevole, atteso che proprio in ciò consiste la differenziazione tra querela e denuncia. Ne consegue che la manifestazione della volontà di instare per la punizione del reo, pur non richiedendo formule sacramentali, deve essere assolutamente chiara ed inequivocabile e non può desumersi dai contenuti di una mera denuncia di un fatto di reato.
Cassazione penale, Sez. IV, sentenza 17 gennaio 2024, n. 1964
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI | |
Conformi | Cass. pen. sez. IV, 24/09/2007, n. 40273
Cass. pen., sez. VI, 22/01/2003, n. 11386 |
Difformi | Non si rinvengono precedenti in termini |
Prima di soffermarci sulla pronuncia resa dalla Suprema Corte, deve essere ricordato che l’art. 336, c.p.p., sotto la rubrica «Querela», prevede che “1. La querela è proposta mediante dichiarazione nella quale, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, si manifesta la volontà che si proceda in ordine a un fatto previsto dalla legge come reato”.
Con riferimento alle forme della querela, il legislatore, rispetto al passato, ha tentato di percorrere una strada più lineare, riducendo al minimo la sfera interpretativa a vantaggio d’una migliore chiarezza espositiva (Antille, La riforma ha innovato la querela?, in ANPP, 1992, 471). L’atto di querela deve recare sia la narrazione d’un fatto sia la richiesta che il suo autore venga perseguito penalmente (Cordero, Procedura penale, 5, Milano, 2000, 407).
Per quanto riguarda questo secondo aspetto, è orientamento consolidato che la querela non debba includere necessariamente formule sacramentali: la volontà di querelare, purché risulti inequivocabilmente, può essere espressa in qualsiasi modo [Cordero, 407; Pisani, Molari, Pechinunno, Corso, Manuale di procedura penale, 2, Bologna, 1996, 348; Dalia, Ferraioli, Manuale di diritto processuale penale, 3, Padova, 2000, 428; Montagna, Procedibilità (le singole condizioni), in ED, agg., II, Milano, 1998, 761; Neppi Modona, Indagini preliminari e udienza preliminare, in Conso, Grevi, Profili del nuovo codice di procedura penale, 4, Padova, 1996, 384; Orlandi, sub art. 336, in Comm. Chiavario, IV, Torino, 1990, 62; Volpe, Querela, in Digesto pen., X, Torino, 1995, 565].
In giurisprudenza v. Cass. pen. sez. V, 19/10/2001, C., in Mass. Uff., 220259, con riferimento all’atto di costituzione di parte civile; Cass. pen. sez. V, 25/05/1999, C., in ANPP, 2000, 91; Cass. pen. sez. I, 05/12/1995, B., in CP, 1998, 599, 333; Cass. pen., Sez. V, 14/11/1994, R., in Mass. Uff., 200442; Cass. pen. sez. V, 20/01/1993, C., in CP, 1994, 2509, 1580. In particolare, è ritenuta sufficiente la denuncia d’un fatto costituente reato successivamente ratificata (Cass. pen. sez. V, 16/10/1997, O., in CP, 1998, 3368).
Secondo Cass. pen. sez. VI, 14/05/2002, D., in Mass. Uff., 222745, può assumere valenza di querela anche la denuncia formalmente presentata per un fatto originariamente qualificato come perseguibile d’ufficio e poi ritenuto integrativo, invece, di reato perseguibile a querela, sempre che la denuncia non si limiti alla mera esposizione dei fatti ma contenga la volontà che, indipendentemente dalla loro apparente qualificazione giuridica, si proceda nei confronti del responsabile. Altresì è precisato che ai fini della validità di una querela, non è necessario l’uso di formula sacramentali, essendo sufficiente la denuncia dei fatti e la chiara manifestazione della volontà della persona offesa di voler perseguire penalmente i fatti denunciati (Cass. pen. sez. IV, 15/11/2011, n. 46994, in CED Cassazione, 2011); nei reati perseguibili a querela di parte, la persona offesa può esprimere la volontà di punizione senza l’impiego di formule particolari, ed il giudice può desumerne la sussistenza anche da atti che non contengono la sua esplicita manifestazione e tale volontà può essere riconosciuta anche nell’atto con il quale la persona offesa si costituisce parte civile (Cass. pen. sez. II, 03/05/2011, M. e altro, in CED Cassazione, 2011).
La querela non richiede formule particolari, né la specifica indicazione dei reati configurabili; sicché, l’esposizione dei fatti e la richiesta di punizione degli autori sono elementi sufficienti ai fini della procedibilità per il reato ravvisato e oggetto dell’imputazione, che può essere modificata ai sensi dell’art. 516 (Cass. pen. sez. VI, 16/11/2010, P., in Foro it., 2011, 3, II, 138). L’affermazione “denuncio ad ogni effetto di legge” conferisce all’atto valore di querela (Cass. pen. sez. VI, 9/11/2006, B. e altro, in Mass. Uff., 235442).
Dato il carattere negoziale dell’atto di querela, s’è fatto riferimento, per l’interpretazione del medesimo, ai criteri di cui agli artt. 1362 ss. c.c. (P. Ravenna 10.6.1993, Holsinger, in ANPP, 1993, 604). Nello stesso senso si è pronunciata anche la Corte di Cassazione, secondo cui essendo la querela un negozio processuale, il suo contenuto va interpretato ricostruendo la effettiva volontà del querelante, desumibile, tanto dal testo del documento, quanto dalla condotta del querelante, anche successiva alla presentazione della istanza di punizione, purché ovviamente ricollegabile alla originaria manifestazione di volontà; in questo senso, si è ritenuto ad esempio che la inesatta indicazione delle generalità del querelato non è necessariamente rilevante, essendo sufficiente che l’atto contenga l’inequivoca manifestazione dell’intenzione del querelante affinché si proceda penalmente nei confronti dell’autore del reato, anche se costui sia ignoto o non correttamente identificato (Cass. pen. sez. V, 26/02/2003, G., in Mass. Uff., 224403; Cass. pen. sez. VI, 22/01/2003, C., in Mass. Uff., 223950).
Nello stesso senso cfr. pure Dragone, Le indagini preliminari e l’udienza preliminare, in Fortuna, Dragone, Fassone, Giustozzi, Pignatelli, Manuale pratico del nuovo processo penale, 4, Padova, 1995, 495. In particolare, quando il relativo contenuto risulti assolutamente equivoco, la denuncia dev’essere interpretata, sia per il generale canone ermeneutico di cui all’art. 1370 c.c., sia per il principio generale, vigente nel settore penale, in dubio pro reo, nel senso di escluderne la natura di querela (Cass. pen. sez. III, 17/05/1996, F., in ANPP, 1997, 71). La libertà di forme in tema di querela consente di qualificare tale anche quell’atto che non contenga l’esplicita denominazione di querela (con riferimento ad un atto di costituzione di parte civile Cass. pen. sez. V, 19/10/2001, C., in DG, 2002, 1, 74).
Tanto premesso, nel caso in esame, era accaduto che la parte offesa aveva sporto denuncia orale presso la Stazione dei Carabinieri, ricostruendo i fatti avvenuti. Tale dichiarazione era sprovvista di una forma – anche solo di stile — volta ad indicare che i responsabili fossero individuati e puniti; tuttavia, alla stessa era stata riconosciuta la qualità di denuncia-querela in ragione della successiva condotta osservata dalla parte offesa, in sede di dichiarazioni testimoniali (si allude a quanto dichiarato nel corso dell’udienza, a distanza di quattro anni dai fatti, e precisamente alla reiterata volontà, ora per allora, che i colpevoli fossero puniti).
Orbene, preso atto di quanto sopra, la Corte di cassazione non ha condiviso l’assunto della sentenza di ritenere presente la condizione di procedibilità̀ della querela. La S.C., pur ribadendo che l’apprezzamento della sussistenza della volontà di querelare costituisce giudizio di merito, insindacabile in sede di legittimità, sempre che l’interpretazione di tale volontà, in tutti i suoi elementi, sia compiuta dal giudice di merito in conformità a corretti canoni di ermeneutica (Cass. pen. sez. V, 25/05/1999, C., CED Cass. 213806; Cass. pen. sez. III, n. 10254 del 12/02/2014, CED Cass. 258384), ha negato che si possa inferire la sussistenza di una implicita volontà di perseguire gli autori del reato da manifestazioni di volontà intervenute successivamente all’avvenuta denuncia, nonché dalla successiva costituzione di parte civile, pur se intervenuta entro il termine per presentare querela.
In ordine al primo profilo, è stato richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la denuncia non è sufficiente a qualificare il relativo atto come querela, ove quest’ultimo non contenga l’univoca manifestazione, da parte del soggetto legittimato, della volontà di chiedere la punizione del colpevole, atteso che proprio in ciò consiste la differenziazione tra querela e denuncia. La manifestazione della volontà di instare per la punizione del reo, infatti, pur non richiedendo formule sacramentali (Cass. pen. sez. IV, n. 40273 del 24/09/2007), deve essere assolutamente chiara ed inequivocabile e non può desumersi dai contenuti di una mera denuncia di un fatto di reato (Cass. pen. sez. VI, n. 11386 del 22/01/2003, CED Cass. 223950).
Sulla scorta dell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui la volontà di perseguire il responsabile del reato non può essere dedotta dal comportamento successivo alla presentazione della denuncia allorché il tenore di quest’ultima risulti del tutto privo di indicazioni al riguardo, anche per il principio generale, vigente in materia penale, (Cass. pen. sez. III, 21/03/1996, F., CED Cass. 205432), non appare nemmeno ammissibile una accentuata operazione di interpretazione della volontà del dichiarante ad opera del giudice, che è incompatibile con la formulazione dell’art. 336 c.p.p., il quale richiede una “dichiarazione”, con cui “si manifesta” la volontà che si proceda. Norma che, per i Supremi Giudici, sembra ostare ad un’attività ermeneutica volta a ricavare aliunde gli estremi della volontà di perseguire il responsabile del reato.
Da qui, pertanto, l’accoglimento del ricorso.
Riferimenti normativi:
Art. 336 c.p.p.