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Punibile la violenza sessuale anche se la violenza non è tale da annullare la volontà della vittima

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Reati contro la persona

Punibile la violenza sessuale anche se la violenza non è tale da annullare la volontà della vittima

lunedì 05 febbraio 2024

a cura della Redazione Wolters Kluwer

Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la condanna inflitta ad un uomo per i reati di maltrattamenti e, per quanto qui di interesse, di violenza sessuale ai danni della ex moglie, la Corte di Cassazione penale, Sez. III, con la sentenza 31 gennaio 2024, n. 4199 – nel disattendere la tesi difensiva secondo cui mancava la prova della consumazione di rapporti sessuali tra l’imputato e la moglie con violenza o presenza di un dissenso della persona offesa, manifestato chiaramente – ha invece ribadito il principio secondo cui ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 609-bis c.p. non si richiede che la violenza sia tale da annullare la volontà del soggetto passivo, ma che tale volontà risulti coartata dalla condotta dell’agente.

Cassazione penale, Sez. III, sentenza 31 gennaio 2024, n. 4199

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi Cass. pen., Sez. III, 24/1/2017, n. 16609

Cass. pen., Sez. III, 10/5/2017, n. 33049

Difformi Non si rinvengono precedenti

Prima di soffermarci sulla pronuncia resa dalla Suprema Corte, deve essere ricordato che l’art. 609-bis, c.p., sotto la rubrica «Violenza sessuale», punisce con la reclusione da sei a dodici anni, la condotta di chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:

1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;

2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.

Nell’art. 609-bis il mantenimento della violenza e della minaccia tra i requisiti della condotta si pone lungo una linea di continuità rispetto all’abrogato art. 519, discostandosi però da diversi modelli di incriminazione. Si era, infatti, notato come i requisiti della violenza e della minaccia potessero essere sostituiti dal mero dissenso o, più sfumatamente, dalla mancanza di consenso. E, ponendo in correlazione il delitto di violenza sessuale ed il delitto di violazione di domicilio, era apparso singolare che nell’ipotesi di cui all’art. 614 fosse sufficiente la volontà espressa o tacita del titolare del diritto di esclusione, mentre nell’ipotesi di violenza sessuale occorresse confrontarsi con una violenza o minaccia in atto (Padovani, Violenza carnale e tutela della libertà, in RIDPP, 1989, 1301, ed in Studi in memoria di P. Nuvolone, II, Milano, 1991, 127. Della stessa opinione, tra gli altri, Colli, 1169, e Carmona, 993).

In effetti, la sottolineata centralità del bene giuridico tutelato dai delitti di cui agli artt. 609-bis ss. avrebbe preferibilmente preteso la punizione di una condotta realizzata nonostante la mancanza di consenso della persona offesa (Bertolino, La riforma dei reati di violenza sessuale, 403. Contra, Fiandaca, Violenza sessuale, in ED, Agg., IV, Milano, 2000, 1158). E tale soluzione, oltre che più volte avanzata in dottrina, era stata anche indicata nello Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, all’art. 71 cp, comma 1, lett. a, che attorno alla fattispecie base dello stupro contro la volontà del soggetto passivo prevedeva quali aggravanti l’uso del mezzo violento, abusivo, ingannatorio. Del resto, eliminare il riferimento alla violenza ed alla minaccia nella norma sulla violenza sessuale, e sostituirvi la mancanza di consenso, non avrebbe certo condotto ad una affermazione di responsabilità a carico dell’imputato sulla base del mero racconto della pretesa parte offesa, dovendosi sempre valutare l’attendibilità della stessa.

Con particolare riferimento alla relazione con il soggetto convivente, come nel caso esaminato dalla Cassazione, si è recentemente affermato che l’idoneità della violenza o della minaccia a coartare la volontà della vittima non va esaminata secondo criteri astratti e aprioristici, ma valorizzando in concreto ogni circostanza oggettiva e soggettiva, sicché essa può ravvisarsi anche in relazione ad una minaccia o ad una intimidazione psicologica attuata in situazioni tali da influire negativamente sul processo mentale di libera determinazione della vittima: nel caso di specie, la persona offesa, dopo essere stata picchiata con calci e pugni dal convivente, era fuggita da casa; tornata dopo pochi minuti, era stata di nuovo malmenata e tale situazione l’aveva indotta a spogliarsi e a consentire ad accettare rapporti sessuali contro la sua volontà, al fine di evitare ulteriori conseguenze lesive (Cass. pen., Sez. III, 7/7/2017, n. 33049. Conforme, Cass. pen., Sez. III, 26/3/2013, n. 14085, Cass. pen., Sez. III, 16/11/1988).

Ancora, la Cassazione ha statuito che è sufficiente qualsiasi forma di costringimento fisico o psichico idoneo ad incidere sull’altrui libertà di autodeterminarsi sessualmente, non rilevando, quindi, né l’esistenza di un rapporto di coppia coniugale o para-coniugale tra le parti, né la circostanza che la donna non si sia opposta esplicitamente ai rapporti sessuali, subendoli, qualora emerga la prova che l’agente, per le violenze e le minacce poste in essere in un contesto di umiliazione e di sopraffazione, abbia la consapevolezza di un rifiuto implicito da parte della donna al compimento di atti sessuali (Cass. pen., Sez. III, 21/3/2023, n. 11770; Cass. pen., Sez. III, 6/11/2019, n. 44956; Cass. pen., 29/4/2019, n. 17676; Cass. pen., Sez. III, 5/10/2015, n. 39865).

Dunque, ai fini della configurabilità del delitto di violenza sessuale, sono prive di rilevanza le circostanze relative all’assenza di lesioni personali sul corpo della vittima, il comportamento remissivo della stessa, anche successivo ai fatti, e le esitazioni nello sporgere denuncia, in quanto tali circostanze sarebbero facilmente spiegabili con lo stato di terrore nel quale versa la vittima (Cass. pen., Sez. III, 21/2/2000, n. 1911).

Inoltre, si è affermato che il delitto di violenza sessuale si configura anche laddove la violenza non sia stata tale da annullare la volontà del soggetto passivo: è sufficiente, infatti, che la volontà risulti coartata (Cass. pen., Sez. III, 18/5/2021, n. 19611). Ancora, si è precisato che integra l’elemento oggettivo del delitto in esame non solo la condotta invasiva della sfera della libertà ed integrità sessuale altrui realizzata in presenza di una manifestazione del dissenso della vittima, ma anche quella posta in essere in assenza del consenso della persona offesa, non espresso neppure tacitamente, ove la stessa non abbia consapevolezza della materialità degli atti compiuti sulla sua persona (nella specie, gli atti sessuali erano stati realizzati su una persona dormiente: Cass. pen., Sez. III, 8/5/2017, n. 22127).

Ancora, integra la violenza sessuale il fatto di colui che prosegua un rapporto sessuale quando il consenso della vittima, inizialmente prestato, venga meno a causa di un ripensamento ovvero della non condivisione delle forme o delle modalità di consumazione del rapporto, poiché il consenso della vittima al compimento degli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto (Cass. pen., Sez. III, 27/1/2020, n. 3158; Cass. pen., Sez. III, 5/4/2019, n. 15010; Cass. pen., Sez. III, 7/3/2016, n. 9221. Nel medesimo senso: Cass. pen., Sez. III, 6/2/2014, n. 5768). E ciò vale anche nel caso di pratica erotica «“straordinaria”», del tutto equiparabile alla pratica erotica «“ordinaria”», poiché entrambe devono considerarsi lecite ove coinvolgano persone consenzienti (Cass. pen., Sez. III, 26/11/2021, n. 43611).

Peraltro, poiché il consenso all’atto sessuale deve essere verificato nel momento nel quale si consuma il rapporto, prescindendo dal comportamento provocatorio in precedenza assunto, e deve, appunto, permanere per l’intera durata del rapporto, l’eventuale sopravvenuto dissenso integra il reato, precludendo anche il riconoscimento dell’attenuante della minore gravità al cospetto delle altre condizioni previste dalla legge (Cass. pen., Sez. III, 26/7/2023, n. 32447).

Si è poi affermato che non è necessario che il dissenso della vittima si manifesti per tutto il periodo di esecuzione del delitto, essendo sufficiente che si estrinsechi all’inizio della condotta antigiuridica (Cass. pen., Sez. III, 29/1/2008, n. 4532; Cass. pen., Sez. III, 29/2/2000, n. 2512) e che la violenza richiesta per l’integrazione del reato è anche quella che si manifesta «nel compimento insidiosamente rapido dell’azione criminosa, così venendosi a superare la contraria volontà del soggetto passivo»: si pensi, ad esempio, all’improvviso palpeggiamento del seno (Cass. pen., Sez. III, 18/10/2013, n. 42871).

Tanto premesso, nel caso in esame, la Corte di appello, per quanto concerne l’affermazione di responsabilità, aveva confermato la sentenza del Tribunale relativamente ai reati di cui agli art. 572 c.p. (in danno della moglie e dei figli), nonché, per quanto qui rileva, in relazione al reato di cui agli artt. art. 81 e 609-bis, comma 3, c.p. (in danno della moglie).

Ricorrendo in Cassazione, la difesa ne sosteneva l’erroneità, per quanto qui di interesse, con riferimento al reato di violenza sessuale, sottolineando che la moglie del reo, con una deposizione molto sofferta, non era riuscita a chiarire se il suo rifiuto ai rapporti sessuali con il marito fosse stata comunicata o rimasta al suo interno, senza poter incidere nella volontà dell’imputato. La donna dichiarava che, dopo le richieste del marito, lei acconsentiva a farlo e di non essere mai stata violentata con forza. Anche i figli avevano sempre smentito la consumazione di violenze sessuali ai danni della loro madre. Mancava, conseguentemente, per la difesa, la prova della consumazione di rapporti sessuali tra l’imputato e la moglie con violenza o presenza di un dissenso della persona offesa, manifestato chiaramente.

La Cassazione, nel disattendere la tesi difensiva, ha affermato il principio di cui sopra. In particolare, dopo aver preso atto che la sentenza aveva acclarato come la donna aveva deciso di dormire separata dal marito, proprio per evitare i rapporti sessuali, mentre l’imputato di notte si recava nella sua camera – dove la moglie dormiva con le figlie – e insisteva per dei rapporti sessuali, a nulla valendo il fatto che la donna gli manifestasse il suo dissenso, in quanto l’imputato insisteva e la donna per evitare di farlo adirare e di svegliare i figli acconsentiva ai rapporti sessuali, senza urlare in quanto avrebbe coinvolto nei fatti i figli che dormivano, ha richiamato la giurisprudenza già citata in precedenza che ritiene sussistente la violenza sessuale quando il rapporto sessuale è consumato anche solo approfittando dello stato di prostrazione, angoscia o diminuita resistenza in cui la vittima è ridotta, segnatamente rifacendosi ad una fattispecie in cui la persona offesa, pur piangendo e manifestando il proprio dissenso, non aveva frapposto alcuna opposizione fisica al rapporto sessuale impostole dal proprio convivente, nel timore derivante da un violento colpo infertole dall’imputato assieme all’intimazione a seguirlo in camera da letto, e nella preoccupazione di non svegliare con le proprie urla il figlio che dormiva nella stanza attigua (Cass. pen., Sez. III, n. 16609 del 24/1/2017, CED Cass. 269631 – 01; vedi anche Cass. pen., Sez. III, n. 33049 del 10/5/2017, CED Cass. 270643 – 01).

Da qui, dunque, l’inammissibilità del ricorso.

Riferimenti normativi:

Art. 609-bis c.p.

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