Procedura penale
Processo penale
Circostanze aggravanti non contestate: nessun rimedio per il PM
lunedì 21 novembre 2022
di Corbetta Stefano Consigliere della Corte Suprema di Cassazione
Il caso
Il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Palermo sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 112 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 521, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice disponga con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero quando accerta che risulta una circostanza aggravante non oggetto di contestazione.
Quanto alla presunta violazione dell’art. 3 Cost., il rimettente ritiene che l’impossibilità di procedere alla restituzione degli atti al pubblico ministero nel caso in cui emerga una circostanza aggravante non contestata abbia l’effetto di ricondurre casi meno gravi a un regime sanzionatorio più pesante di quello riservato a casi di pari gravità o addirittura più gravi, come si verificherebbe nel caso di specie, in cui – a parità di delitto commesso – un imputato al quale è stata ritualmente contestata la recidiva rischierebbe di essere punito più severamente rispetto ad altro imputato al quale la recidiva non è stata contestata dal pubblico ministero, nonostante i numerosi precedenti risultanti dai certificati del casellario giudiziale.
Con riferimento all’asserita violazione dell’art. 112 Cost., ad avviso del rimettente il principio di obbligatorietà dell’azione penale non dovrebbe intendersi limitato agli elementi essenziali del fatto, ma dovrebbe riguardare anche gli elementi circostanziali, tenuto conto dell’incidenza che la loro presenza o assenza ha sul complessivo trattamento sanzionatorio.
In sostanza, il rimettente sollecita una pronuncia additiva, per effetto della quale il giudice dovrebbe essere tenuto alla restituzione degli atti al pubblico ministero non solo quando risulti che il fatto sia diverso da quello contestato, ma anche quando risulti dagli atti una circostanza aggravante non contestata dal pubblico ministero.
La decisione della Corte
Le questioni sono state ritenute infondate.
Quanto alla ventilata violazione dell’art. 3 Cost., la Corte ha posto una duplice premessa.
Da un lato, ricollegandosi alla propria costante giurisprudenza, la Corte ha ribadito che “il legislatore gode di ampia discrezionalità nella configurazione degli istituti processuali, censurabile soltanto nei limiti della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte operate” (ex plurimis, sentenze Corte cost. n. 74/2022, Corte cost. n. 213/2021, Corte cost. n. 95/2020, Corte cost. n. 79/2020 e Corte cost. n. 58/2020); ciò in quanto la disciplina del processo è “frutto di delicati bilanciamenti tra principi e interessi in naturale conflitto reciproco, sicché ogni intervento correttivo su una singola disposizione, volto ad assicurare una più ampia tutela a uno di tali principi o interessi, rischia di alterare gli equilibri complessivi del sistema”, il che spiega l’atteggiamento di self restraint assunto dalla Corte nello scrutinare le censure in materia processuale fondate, in particolare, sull’art. 3 Cost.
Dall’altro, la Corte ha dato atto della correttezza dell’interpretazione, assunta dal rimettente, circa l’impossibilità di estendere la disciplina dettata per il fatto diverso all’ipotesi del fatto connotato da una circostanza aggravante non contestata dal pubblico ministero. In questo senso, del resto, è schierata la giurisprudenza di legittimità, secondo cui è addirittura abnorme il provvedimento del giudice che, rilevata l’omessa contestazione della recidiva nell’imputazione, restituisca gli atti al pubblico ministero affinché la riformuli (Cass., sentenza n. 30498/2011). In un’evenienza del genere, quindi, il giudice non può ritenere esistente in base agli atti la circostanza non contestata e deve limitarsi a pronunciare condanna per il fatto di reato non qualificato, come ritualmente contestato dal pubblico ministero.
Una disciplina del genere può, nella prassi, dar luogo a una disparità di trattamento, come nella vicenda in esame, nella quale, come detto, a parità di delitto commesso, un imputato al quale è stata ritualmente contestata la recidiva rischia di essere punito più severamente rispetto ad un coimputato al quale la recidiva non è stata contestata dal pubblico ministero, nonostante i numerosi precedenti risultanti dai certificati del casellario giudiziale.
Una simile disparità, a giudizio della Corte, non può nemmeno essere elisa dal giudice in sede di commisurazione della pena per la dirimente ragione che “una circostanza aggravante non contestata all’imputato, e pertanto non oggetto di contraddittorio tra accusa e difesa, deve essere considerata tamquam non esset per il giudice”; ciò vale, in particolare, per la recidiva, la cui applicazione comporta la valutazione che, nel caso concreto, i reati precedentemente commessi siano indicativi di una maggiore colpevolezza e di una sua maggiore pericolosità dell’imputato.
Ciò posto, la Corte ha ritenuto non manifestamente irragionevole la disciplina posta dall’art. 521, comma 2, c.p.p., che, solo in relazione all’ipotesi di “fatto diverso” da quello contestato dispone che il giudice non definisca il processo attraverso una pronuncia di assoluzione (ciò che, per effetto della regola generale del ne bis in idem consacrata dall’art. 649 c.p.p., precluderebbe al pubblico ministero di esercitare una nuova azione penale), ma restituisca gli atti al pubblico ministero perché questi, appunto, possa procedere, se del caso, a un nuovo esercizio dell’azione penale sulla base del fatto emerso in giudizio.
In relazione, invece, alle circostanze aggravanti del fatto non contestate dal pubblico ministero, non trovando applicazione la disciplina delineata dall’art. 521, comma 2, c.p.p., il giudice è tenuto a pronunciare condanna soltanto per il fatto contestato, non qualificato dall’aggravante; e il pubblico ministero non ha alcuna possibilità di “recuperare” tale aggravante né nei successivi gradi di giudizio, né, ovviamente, in un diverso giudizio, stante, anche in questo caso, lo sbarramento posto dal ne bis in idem.
Per fugare la censura di manifesta irragionevolezza di disciplina, la Corte ha messo in luce una differenza non di poco conto che separa le due ipotesi in esame: in relazione al fatto diverso il giudice – ove non potesse restituire gli atti al pubblico ministero – dovrebbe assolvere l’imputato, che, inoltre, non potrebbe nemmeno essere più processato per quel fatto; quando, invece, il giudice rileva la presenza di una circostanza aggravante non oggetto di contestazione, l’esito del giudizio resta comunque di condanna, sebbene per il fatto non aggravato.
Orbene, la scelta del legislatore di calibrare la regola della restituzione degli atti al pubblico ministero, con il suo carico di allungamento dei tempi processuali, sulla sola ipotesi del fatto diverso, privilegiando invece le ragioni di tutela della ragionevole durata del processo e della posizione di terzietà e imparzialità del giudice nel caso in cui l’errore del pubblico ministero si ripercuota soltanto sulla misura della pena da infliggere a un imputato comunque condannato per il fatto di reato risultato provato in sede processuale, “individua un punto di equilibrio non implausibile tra gli opposti interessi e principi in gioco, tutti di grande rilievo nel vigente sistema del processo penale; ed è in ogni caso ben lungi dal poter essere qualificata in termini di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà”.
La Corte ha escluso anche la violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost.
La Corte ha osservato che il principio di obbligatorietà dell’azione penale da parte del pubblico ministero è connesso “tanto al principio di eguaglianza quanto a quello di legalità in materia penale, essendo in definitiva funzionale alla garanzia di un’uniforme e imparziale applicazione della legge penale a tutti i suoi destinatari”.
Per garantire l’effettività di tale principio l’ordinamento prevede vari meccanismi che assicurano il controllo di un giudice sulle decisioni del pubblico ministero relative all’esercizio dell’azione penale o ai suoi stessi esiti (si vedano, ad esempio, gli artt. 409, 448, 521, comma 2, c.p.p.); in altri termini, “nonostante la fondamentale connotazione accusatoria del nostro sistema processuale, il pubblico ministero non è, insomma, dominus assoluto dell’azione penale, essendo previste varie possibilità di intervento del giudice per assicurare, anche contro l’avviso del pubblico ministero, l’uniforme e imparziale applicazione della legge penale ai suoi destinatari, in omaggio alla ratio sottesa all’art. 112 Cost.”
Anche in tal caso – ossia a proposito della conformazione dei poteri di controllo riconosciuti al giudice in ordine alle scelte del pubblico ministero – il legislatore è “chiamato a un delicato bilanciamento tra i molti principi che entrano in gioco nel processo penale”.
Il principio di obbligatorietà dell’azione penale, peraltro, ad avviso della Corte “non può essere ragionevolmente esteso sino al punto di negare qualsiasi spazio valutativo al pubblico ministero sulla concreta configurazione dell’imputazione, nella quale egli è tenuto a enunciare i fatti storici corrispondenti all’insieme delle fattispecie astratte contenute nelle disposizioni da cui dipende la rilevanza penale di una condotta”.
Il legislatore, inoltre, deve sempre garantire “l’effettività del diritto di difesa dell’imputato, il quale – una volta formulata l’imputazione da parte del pubblico ministero – ha un’ovvia aspettativa a poter articolare la propria strategia difensiva in relazione, appunto, all’imputazione così cristallizzata”.
Ancora, il riconoscimento, in capo al giudice, di un sindacato più penetrante su tutte le scelte compiute dal pubblico ministero nella descrizione del fatto di reato finirebbe “per snaturare la stessa posizione di terzietà e imparzialità del giudice”.
Anche sotto il profilo della sua compatibilità con l’art. 112 Cost., la norma censurata, quindi, individua “un punto di equilibrio nient’affatto irragionevole tra il complesso dei principi e interessi sottesi al delicato meccanismo del processo penale”.
Esito del ricorso:
Dichiarazione di infondatezza
Riferimenti normativi: