Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso l’ordinanza con cui la Corte d’appello aveva ridotto il “quantum” dell’indennizzo ad un soggetto a titolo di riparazione dell’ingiusta detenzione subita a causa della colpa lieve che aveva determinato l’adozione della misura cautelare, la Corte di Cassazione penale, Sez. IV, sentenza 14 novembre 2022, n. 43097 – nell’accogliere la tesi difensiva secondo cui erronea doveva considerarsi l’operata riduzione dell’importo liquidabile argomentata con riferimento alla colpa lieve in rapporto di sinergia con l’intervento dell’autorità – pur prendendo atto dell’esistenza di un contrasto giurisprudenziale, ha aderito all’orientamento per il quale, nel caso in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiale avvenga sulla base degli stessi precisi elementi che aveva a disposizione il giudice del provvedimento della cautela è preclusa la possibilità di valutare l’incidenza della condotta dell’indagato/imputato, sia essa dolosa ovvero gravemente o lievemente colposa, anche ai fini della determinazione del quantum d’indennizzo liquidabile.
Cassazione penale, Sez. IV, sentenza 14 novembre 2022, n. 43097
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI | |
Conformi | Cass. pen. sez. IV, 11/01/2019, n. 5452
Cass. pen. sez. IV, 21/03/2019, n. 22103 |
Difformi | Cass. pen. sez. IV, 21/04/1994, n. 529
Cass. pen. sez. IV, 31/01/1994, n. 126 Cass. pen. sez. IV, 30/04/1993, n. 544 |
Prima di soffermarci sulla pronuncia resa dalla Suprema Corte, deve essere ricordato che l’art. 314, c.p.p., sotto la rubrica «Presupposti e modalità della decisione», dopo aver stabilito al comma 1 che “Chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave. L’esercizio da parte dell’imputato della facoltà di cui all’articolo 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione di cui al primo periodo”, aggiunge al comma 2 che “Lo stesso diritto spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e 280”.
Occorre sul punto premettere che mentre la c.d. «ingiustizia sostanziale», di cui all’art. 314, comma 1, c.p.p., presuppone l’affermazione dell’innocenza del richiedente, la c.d. «ingiustizia formale» di cui al comma 2 dell’art. 314, prescinde da tale accertamento e richiede solamente l’accertamento della illegalità del provvedimento restrittivo, assunto in difetto delle condizioni previste dagli artt. 273 e 280 del codice di rito, quindi anche in assenza dei gravi indizi di colpevolezza.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte, nel risolvere il dubbio interpretativo sul punto, hanno precisato che la circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave opera, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, anche in relazione alle misure disposte in difetto delle condizioni di applicabilità (Cass. pen. sez. Unite, n. 32383 del 27/05/2010, D’Ambrosio, CED Cass. 247663-01; in precedenza, nello stesso senso, va ricordata, tra le altre, Cass. pen. sez. IV, n. 6628 del 23/01/2009, T., CED Cass. 242727-01). Nel caso dell’insussistenza originaria delle condizioni per l’adozione o il mantenimento della misura custodiale, infatti, l’obiettiva ingiustizia della detenzione subita può trovare scaturigine in comportamenti dolosi o gravemente colposi del richiedente. Sicché, attribuire rilevanza ostativa a tali condotte ben si concilia con il fondamento solidaristico dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, alla cui stregua è ragionevole che il ristoro assicurato dall’ordinamento sia riconosciuto a chi abbia «patito», e non concorso a determinare, l’applicazione del provvedimento restrittivo. Il citato intervento nomofilattico delle Sezioni Unite ha però condivisibilmente posto un ineludibile «paletto».
Nel caso in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiale avvenga sulla base degli stessi precisi elementi che aveva a disposizione il giudice del provvedimento della cautela, difatti, è preclusa la possibilità di valutare l’incidenza della condotta dolosa o colposa dell’imputato. Ciò, evidentemente, in quanto in tali casi il giudice era oggettivamente nelle condizioni di negare o revocare la misura e, pertanto, nessuna efficienza causale nella sua determinazione può attribuirsi al soggetto passivo. Per converso, dovrà invece valutarsi la sinergia causale del dolo o della colpa grave nel caso in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiale sia avvenuto alla stregua di un materiale probatorio contrassegnato da diversità rispetto a quello originariamente detenuto dal giudice della cautela (in merito si vedano, per la successiva giurisprudenza di legittimità, ex plurimis: Cass. pen., sez. IV, n. 16175 del 22/04/2021, B., CED Cass. 281038-01, per l’ipotesi di ingiustizia correlata alla diversa qualificazione del reato, in sede di merito, che ne abbia determinato l’estinzione per prescrizione e il venir meno delle condizioni di applicabilità della misura cautelare).
Premesso quanto sopra, il problema posto dalla sentenza qui commentata è quello di poter ritenere o meno rilevante, ai fini del quantum dell’indennizzo, l’accertata colpa del richiedente in fattispecie caratterizzate da c.d. ingiustizia formale per l’assenza ab origine della gravità indiziaria ma argomentata da una diversa valutazione dei medesimi elementi posti alla base dell’ordinanza cautelare.
Orbene, in merito si contrappongono due diversi orientamenti nella giurisprudenza di legittimità. Secondo una prima tesi ermeneutica, nell’ipotesi in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura avvenga sulla base di una diversa valutazione dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare, pur non rilevando la condotta del richiedente sotto il profilo dell’an della riparazione in quanto priva di efficienza causale circa l’intervento dell’autorità ed il suo mantenimento, il giudice della riparazione è tenuto a valutare – al diverso fine della eventuale riduzione dell’entità dell’indennizzo – anche la condotta colposa lieve. Il giudice di merito, dunque, ravvisata la colpa lieve, deve adeguatamente motivare in ordine alla riduzione dell’indennizzo, che non dovrà comunque risultare spropositata (questa soluzione interpretativa trova la sua espressione in Cass. pen. sez. IV, n. 34541 del 24/05/2016, CED Cass. 267506, seguita da Cass. pen. sez. III n. 41600 dell’8/10/2021, M.).
Stante il fondamento che l’orientamento in esame pone alla base della tesi interpretativa, il quantum liquidabile sarebbe suscettibile di essere ridotto non solo nel caso di condotta lievemente colposa ma, a fortiori, in ragione di una condotta gravemente colposa o dolosa, ferma restando l’irrilevanza di essa ai fini del diritto all’indennizzo.
Per l’indirizzo interpretativo contrario, sostenuto da un maggior numero di decisioni, invece, nell’ipotesi in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura avvenga sulla base di una diversa valutazione dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare, il giudice della riparazione non può valutare la condotta colposa (lieve) neppure al diverso fine della eventuale riduzione dell’entità dell’indennizzo trattandosi di condotta priva di efficienza causale circa l’intervento dell’autorità (si vedano, in particolare: Cass. pen. sez. IV, n. 5452 del 11/01/2019, R., CED Cass. 275021, che esplicita la sottesa ratio individuandola nell’assenza di efficienza causale, oltre che, Cass. pen. sez. IV, n. 22103 del 21/03/2019, L., CED Cass. 276091; Cass. pen. sez. IV, n. 54042 del 9/11/2018, L., CED Cass. 274765; Cass. pen. sez. IV, n. 22806 del 06/02/2018, M., CED Cass. 272993).
Tanto premesso, nel caso in esame, la Corte d’appello aveva operato una diminuzione finale del 50% in ragione della colpa lieve, tenendo già conto dell’incremento riconosciuto in ragione dell’essere stata, quella in esame, la prima esperienza detentiva per un soggetto incensurato oltre che le conseguenze degli effetti mediatici della notizia dell’applicazione della misura cautelare (diffusa con riferimento allo specifico nominativo dell’indagato). Ricorrendo in Cassazione, la difesa ne sosteneva l’erroneità, lamentandosi dell’operata riduzione dell’importo liquidabile, argomentata con riferimento alla colpa lieve in rapporto di sinergia con l’intervento dell’autorità.
La Cassazione, nell’accogliere sul punto la tesi difensiva, ha aderito al secondo degli orientamenti giurisprudenziali dianzi richiamati. In particolare, secondo la S.C., proprio argomentando da Cass. pen., Sez. Un., n. 32383/2010, D’Ambrosio, deve evidenziarsi che, in tali casi, il giudice era oggettivamente nelle condizioni di negare o revocare la misura in quanto nessuna efficienza causale rispetto all’adozione di essa può attribuirsi alla condotta del soggetto e, di conseguenza, che il comportamento del richiedente non può dirsi aver avuto efficienza causale nel «determinismo dell’evento» (l’intervento cautelare), con conseguente impossibilità di considerarlo ai fini della riduzione del quantum. Tale lettura, secondo la Cassazione, è peraltro in linea con la natura eminentemente solidaristica dell’istituto (evidenziata peraltro anche da Corte cost. n. 446/1997) quale misura riparatoria e riequilibratrice, e in parte compensatrice, dell’ineliminabile componente di alea per la persona propria della giurisdizione penale (cautelare).
Ciò comporta l’accollo per lo Stato di un onere riparatorio nei confronti di chi, per effetto di quell’esercizio e non anche della propria condotta, abbia subito una lesione del bene fondamentale della libertà personale. In tale situazione, quindi, sarebbe irragionevole un istituto che, da un lato, per «diritto vivente», contempli la riparazione in ragione dell’assenza di efficienza causale della condotta del richiedente nel determinismo dell’intervento dell’autorità, e, dall’altro, riduca il quantum liquidabile in forza della medesima condotta priva della descritta efficacia causale. Né può infine argomentarsi in senso inverso dalla natura equitativa della riparazione senza finire con l’attribuire, irragionevolmente, all’equità una funzione non propria, quella di sopperire ad un nesso eziologico insussistente.
Da qui, pertanto, l’accoglimento del ricorso.
Riferimenti normativi: