Penale
Reati contro l’onore
Non è diffamazione dare dell’evasore alla controparte
venerdì 24 febbraio 2023
a cura della Redazione Wolters Kluwer
Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui il giudice di pace aveva condannato due avvocati per il reato di diffamazione aggravata ai danni di un soggetto, controparte processuale in un giudizio di separazione non consensuale, avendolo sostanzialmente definito come un evasore fiscale in un atto depositato, la Corte di Cassazione penale, Sez. V, con la sentenza 15 febbraio 2023, n. 6314 – nel disattendere la tesi del Pubblico Ministero che aveva proposto ricorso per cassazione, secondo cui gli imputati avevano agito con evidente coefficiente di dolo generico ed eventuale, consistente nell’affermazione consapevole di affermazioni socialmente interpretabili come offensive, nonostante essi avessero dei dubbi – ha affermato il principio secondo cui l’espressione contestata agli imputati (“può contare su entrate non fiscalizzate”) non conteneva in sé quella valenza denigratoria, screditante ed inutilmente aggressiva che costituisce il necessario presupposto della tipicità del reato, ossia, quindi, alcun elemento di offensività, essendo d’altronde la stessa inserita nel contesto difensivo avente natura strettamente tecnica e collegata alla oggettiva situazione finanziaria – non necessariamente rimandante all’illecito dell’evasione fiscale – della persona offesa, priva di contenuto strettamente diffamatorio.
Cassazione penale, Sez. V, sentenza 15 febbraio 2023, n. 6314
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI | |
Conformi | Cass. pen. sez. III, 28/01/2019, n. 3972 |
Difformi | Non si rinvengono precedenti in termini |
Prima di soffermarci sulla pronuncia resa dalla Suprema Corte, deve essere ricordato che l’art. 595 c.p., sotto la rubrica «Diffamazione», punisce con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032, la condotta di chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516. Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.
Per quanto qui di interesse, poi, fa da pendant alla disposizione in esame l’art. 598 c.p., che, sotto la rubrica «Offese in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle autorità giudiziarie o amministrative», prevede che non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un’autorità amministrativa, quando le offese concernono l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo. Il giudice, pronunciando nella causa, può, oltre ai provvedimenti disciplinari, ordinare la soppressione o la cancellazione, in tutto o in parte, delle scritture offensive, e assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale. Qualora si tratti di scritture per le quali la soppressione o cancellazione non possa eseguirsi, è fatta sulle medesime annotazione della sentenza.
La Suprema Corte ha affermato in più occasioni la necessità che le espressioni ingiuriose concernano, in modo diretto ed immediato, l’oggetto della controversia ed abbiano rilevanza funzionale per le argomentazioni poste a sostegno della tesi prospettata o per l’accoglimento della domanda proposta; dunque, non può sussistere alcun diritto ad offendere persone estranee e non collegate in modo diretto alla domanda proposta al giudice (Cass. pen. sez. V, 09/12/2021, n. 45249; Cass. pen. sez. V, 26/02/2019, n. 8421; Cass. pen. sez. V, 18/01/2017, n. 2507; Cass. pen. sez. V, 23/09/1998; Cass. civ. sez. III, 3/12/2007, con cui la Corte ha escluso che potesse operare l’esimente di cui all’art. 598 c.p. nel caso in cui il difensore dell’imputato, nel corso di intervista rilasciata ad un giornalista e pubblicata su un quotidiano, abbia leso la reputazione di un testimone).
Contra: la Suprema Corte ha avuto modo di affermare come rientrano nel campo di operatività della norma anche le offese dirette ai giudici delle precedenti fasi del giudizio o ai loro ausiliari, o anche a persone estranee alla causa, purché ovviamente esse concernano l’oggetto della causa medesima (Cass. pen. sez. V, 23/03/2011; Cass. pen. sez. V, 16/06/2006; Cass. pen. sez. V, 4/4/2000; Cass. pen. 07/12/1988; Cass. civ. 17/05/1991, n. 5575).
Sulla necessità di uno stretto legame tra l’ingiuria e l’oggetto della causa la Suprema Corte ha avuto modo di insistere in più occasioni (Cass. pen. sez. VI, 8/6/2022, n. 22376; Cass. pen. sez. VI, 03/06/2016, n. 33262; Cass. pen. 26/11/1986, laddove si sottolinea che tale legame deve intercorrere non già tra gli scritti o discorsi e l’oggetto della causa, bensì tra questo oggetto e le offese contenute in quegli scritti o discorsi; Cass. pen. sez. V, 28/01/2005; Cass. pen. sez. V, 18/01/1979, che sottolinea la necessità che le offese in scritti o discorsi pronunciati dinanzi alle Autorità giudiziarie concernano, quand’anche non necessarie e non relative a passaggi decisivi dell’argomentazione, l’oggetto della causa e siano direttamente connesse ad essa, con la conseguenza che tali presupposti non ricorrono ove le offese non siano pertinenti e si risolvano in giudizi apodittici sulla persona offesa, senza che sia possibile rilevare inferenze argomentative nella controversia in discussione presso l’Autorità giudiziaria).
Più in particolare, in relazione ad offese contenute in scritti o discorsi pronunciati dinanzi alle autorità giudiziarie, ed ai fini dell’applicabilità dell’esimente prevista dall’art. 598, è sufficiente che le offese provengano dalle parti o dai loro patrocinatori e che concernano l’oggetto della causa o del ricorso pendente innanzi alla autorità giudiziaria o a quella amministrativa, a nulla rilevando che esse siano dirette a persone diverse dalle controparti o dai loro patrocinatori (Cass. pen. sez. V, 16/06/2006, ove la Suprema Corte ha specificato come, laddove le offese siano inerenti all’oggetto della causa o del ricorso, oltre a non rilevare il fatto che queste siano dirette a persone diverse dalle controparti, non assume neppure importanza il rilievo che queste siano individuate o individuabili, dal momento che «se il presupposto della esimente è la offensività della affermazione inserita nello scritto giudiziario, la affermazione stessa non può che essere quella che consente la identificazione del suo autore, non essendo data offesa se non è individuabile il suo bersaglio»).
L’esimente sussiste anche allorché le espressioni offensive siano contenute in una diffida stragiudiziale (Cass. pen. sez. V, 31/05/2019, n. 24452; Cass. pen. sez. V, 13/03/2015, n. 28688). Si è, inoltre, affermata la non punibilità del delitto di diffamazione commesso a mezzo di offese contenute in un atto di citazione (Cass. pen. sez. V, 26/2/2009; Cass. pen. sez. V, 03/12/2001; Cass. civ. sez. III, 03/03/2010; P. Bologna, G.I.P., 9/12/1998; contra Cass. pen. sez. II, 05/07/1977).
Per quanto concerne l’elemento psicologico del reato, la Suprema Corte ha affermato come sia sufficiente il dolo generico, consistente nella volontà cosciente e libera di propagare notizie e commenti con la consapevolezza della loro attitudine a ledere altrui reputazione (Cass. pen. sez. V, 23/01/2020, n. 2705; Cass. pen. sez. V, 11/05/2018, n. 21133; Cass. pen. sez. V, 29/01/2013, n. 4364; Cass. pen. sez. V, 28/11/1997, per la quale non può essere esclusa la responsabilità dell’imputato in base ad un’asserita “buona fede” non rilevante nel reato in esame, il cui elemento psicologico è il dolo generico; Cass. pen. sez. V, 7/8/1996; Cass. pen. sez. VI, 31/08/1992). Ancora, sulla stessa linea si è affermato che lo scopo o il motivo di scherzo che si manifesti in modo suscettivo di ledere la reputazione altrui non impedisce l’integrazione del reato sul piano psichico. Dunque, l’attribuzione in un manifesto ad un personaggio pubblico di espressioni volgari e di pesante ironia assume comunque carattere diffamatorio (Cass. pen. sez. V, 25/02/1991).
Su posizioni lievemente diverse, la Suprema Corte ha, invece, stabilito che, pur essendo sufficiente il dolo generico, allorquando il carattere diffamatorio delle espressioni rivolte assuma una consistenza diffamatoria intrinseca non è necessaria alcuna particolare indagine sulla presenza o meno dell’elemento psicologico (dolus in re ipsa) (Cass. pen. sez. V, 18/5/2000; Cass. pen. sez. V, 11/04/2000; Cass. pen. sez. V, 16/12/1997).
La Suprema Corte ha, altresì, sottolineato come, ai fini della configurabilità del delitto de quo, sia sufficiente il dolo eventuale, poiché basta che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, cioè adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell’agente (Cass. pen. sez. V, 21/02/2014, n. 8419; Cass. pen. sez. V, 11/05/1999).
La dottrina appare sulla stessa linea d’onda quanto alla sufficienza del dolo eventuale in relazione alla possibile carica offensiva dell’espressione usata (Spasari, Diffamazione e ingiuria, in ED, XII, Milano, 1964, 489).
Il dolo del reato di diffamazione può sussistere anche laddove si sappia che il fatto è vero (Cass. pen. sez. V, 23/02/1998).
Ancora, l’errore sulla veridicità dei fatti o sulla correttezza dei giudizi oggetto della condotta incriminata non esclude il dolo richiesto dalla norma perché non ricade sugli elementi costitutivi della fattispecie, potendo il reato essere consumato anche propalando la verità, ed essendo sufficiente, ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo, la consapevolezza di formulare giudizi oggettivamente lesivi della reputazione della persona offesa (Cass. pen. sez. V, 07/10/2014, n. 47973).
La Cassazione ha infine avuto modo di affermare come il dolo, nel reato di diffamazione, debba investire non solo la condotta di esternazione di un’espressione diffamatoria, ma anche la circostanza che tale espressione venga a conoscenza di più persone (Cass. pen. sez. V, 15/07/2010; v. anche Cass. pen. sez. V, 10/02/2015, n. 34178).
Tanto premesso, nel caso in esame, il Giudice di pace aveva assolto due avvocati in ordine al reato di cui all’art. 595, comma 1 e 2, c.p., perché il fatto non costituisce reato. In sintesi, agli imputati, difensori di una donna nell’ambito del giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio promosso dall’ex marito, era stato contestato il reato di diffamazione aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato ai danni di quest’ultimo, perché gli imputavano, in due memorie di costituzione depositate, “…una situazione reddituale e patrimoniale “schermata” in quanto atta a far sì che “(omissis), di fatto può contare su entrate non fiscalizzate e su intestazioni formali a propri familiari di beni e rendite”. Ricorrendo in Cassazione, il PM ne sosteneva l’erroneità, ritenendo che gli imputati avessero agito con evidente coefficiente di dolo generico ed eventuale, consistente nella riproposizione consapevole di affermazioni socialmente interpretabili come offensive, nonostante essi avessero dei dubbi.
La Cassazione, nel disattendere la tesi difensiva, ha affermato il principio di cui sopra. In particolare, la S.C. ha ritenuto che il PM si fosse limitato a rivalutare le prove dibattimentali, laddove il Giudice di Pace aveva fatto corretta applicazione dei parametri normativi di cui all’art. 595 c.p., ritenendo che le affermazioni dei legali in danno della controparte contenute negli scritti difensivi, in particolare l’espressione “può contare su entrate non fiscalizzate”, assumevano rilievo per quanto concerne aspetti meramente giuridici riguardanti il giudizio civile per lo scioglimento degli effetti civili del matrimonio tra la parte civile e la ex coniuge; e aveva aggiunto che neppure la loro divulgazione ha assunto implicazioni lesive dell’onorabilità professionale dell’uomo, avuto riguardo al contesto processuale in cui le frasi erano state spese (avrebbero potuto essere espunte dallo stesso giudicante nel corso del giudizio qualora le avesse ritenute lesive dell’onorabilità e dignità dell’ex marito).
Da qui, pertanto, l’inammissibilità del ricorso.
Riferimenti normativi: