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Responsabile di lesioni personali gravissime il malato di AIDS che contagia il compagno

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Reati contro la persona

Reati contro la persona

Responsabile di lesioni personali gravissime il malato di AIDS che contagia il compagno

martedì 28 febbraio 2023

a cura della Redazione Wolters Kluwer

Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la condanna inflitta in primo grado per il reato di lesioni personali gravissime ad un uomo che aveva ripetutamente intrattenuto rapporti sessuali con il suo partner, senza informarlo di essere portatore del virus HIV, provocandone il contagio, la Corte di Cassazione penale, Sez. V, con la sentenza 17 febbraio 2023, n. 6911 – nel disattendere la tesi difensiva secondo cui la Corte di appello aveva errato nel qualificare come dolo eventuale, e non colpa cosciente, l’elemento soggettivo della condotta in contestazione – ha diversamente affermato che risponde a titolo di dolo eventuale e non di colpa cosciente del reato di lesioni personali gravissime, chi, consapevole di essere affetto da sindrome di HIV, intrattenga, ciò nonostante, reiteratamente rapporti sessuali con il proprio partner, senza avvertirlo del pericolo, così finendo per trasmettergli il virus della suddetta malattia.

Cassazione penale, Sez. V, sentenza 17 febbraio 2023, n. 6911

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi Cass. pen. sez. V, 17/09/2008, n. 44712
Difformi Non si rinvengono precedenti in termini

Prima di soffermarci sulla pronuncia resa dalla Suprema Corte, deve essere ricordato che l’art. 583, c.p., sotto la rubrica «Circostanze aggravanti», qualifica le lesioni personali come gravi, prevedendo la pena della reclusione da tre a sette anni, nei seguenti casi: 1. se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni;

  1. se il fatto produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo.

Diversamente, per la medesima disposizione, la lesione personale è gravissima, e si applica la reclusione da sei a dodici anni, se dal fatto deriva:

  1. una malattia certamente o probabilmente insanabile;
  2. la perdita di un senso;
  3. la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella.

Per quanto qui di interesse, va ricordato che poiché la malattia è un processo, l’aggravante delle lesioni gravissime è integrata allorché sia formulabile, con caratteristiche di certezza o di probabilità, la prognosi di una alterazione funzionale dell’organismo, che evolva nel tempo senza ragionevole possibilità di guarigione. Il protrarsi del processo morboso nel tempo, con caratteristiche sufficientemente corpose, distingue la malattia insanabile dalla permanenza di stabili alterazioni organiche o funzionali che integrano l’indebolimento permanente di un senso o di un organo. La distinzione non è sempre facile: vi sono casi che, dal punto di vista medico, sono da considerarsi come malattia e che, dal punto di vista giuridico, sono valutati come indebolimento (es.: certe forme di congiuntivite cronica o l’artrosi post-traumatica); per converso, esiti stabilizzati di malattia, che, portando a menomazioni funzionali e conseguenti perturbazioni indirette con carattere evolutivo, debbono considerarsi malattia, come, ad esempio, certe cicatrici esofagee producenti dispagie di alto grado. La possibilità di guarigione mediante intervento chirurgico di notevole importanza ovvero tramite cure esorbitanti le normali disponibilità economiche non esclude il giudizio circa la probabile insanabilità della malattia.

Con particolare riferimento alla vicenda qui commentata, in cui la lesione gravissima è consistita nel provocare una malattia certamente o probabilmente insanabile, la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato, in casi analoghi a quello in esame, che sussiste il dolo eventuale, e non la colpa cosciente, qualora l’agente non solo si sia rappresentato il concreto rischio del verificarsi dell’evento, ma lo abbia anche accettato, nel senso che si sia determinato ad agire anche a costo di cagionarlo (Cass. pen. sez. V, 17/9/2008, n. 44712, in tema di lesioni personali gravissime commesse da una donna che, consapevole di essere affetta da sindrome di Hiv aveva, ciò nonostante, intrattenuto per lunghi anni rapporti sessuali con il proprio partner, senza avvertirlo del pericolo e così finendo per trasmettergli il virus della suddetta malattia).

Si è poi chiarito che, in tema di responsabilità per il reato di lesioni gravissime dovute alla trasmissione del virus Hiv, l’accertamento del nesso di causalità non è legato al solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, con la conseguenza che anche coefficienti medio-bassi di probabilità frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza, nel caso concreto, di altri fattori interagenti in via alternativa, possono essere utilizzati ai fini del riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento (Cass. pen., sez. V, 20/02/2013, n. 8351, in un caso in cui l’imputato, consapevole di essere affetto da virus HIV, aveva omesso di riferirlo alla convivente).

Tanto premesso, nel caso in esame, la Corte di appello, per quanto qui rileva, aveva confermato la responsabilità penale di un uomo in relazione al delitto di lesioni personali gravissime in continuazione, ai sensi degli artt. 81 cpv., 582, 583, comma 2, n. 1 c.p., “per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, consumato ripetuti rapporti sessuali con [omissis], con la consapevolezza di essere affetto da virus HIV e sottacendo tale circostanza al medesimo, accettando, in tal modo, il rischio del contagio e delle conseguenti lesioni personali e per avere, con tale comportamento, trasmesso il predetto virus all’omissis, che si ammalava di AIDS, malattia certamente insanabile”. Ricorrendo in Cassazione, la difesa dell’imputato ne sosteneva l’erroneità, in particolare perché la sentenza aveva errato nel qualificare come dolo eventuale, e non colpa cosciente, l’elemento soggettivo della condotta in contestazione.

La Cassazione, nel disattendere la tesi difensiva, ha affermato il principio di cui sopra. In particolare, da un punto di vista fattuale ricorda come la sentenza impugnata aveva chiarito come i rapporti sessuali, duranti per circa sei anni, quando l’imputato ospitava il suo partner per tre-quattro mesi all’anno, erano intervenuti “un giorno si e un giorno no” e la relazione si era protratta ulteriormente, anche dopo che il partner si trasferì in altra provincia per ulteriori quattro anni, fino a quando quest’ultimo scoprì di aver contratto il virus HIV.

Quanto all’elemento soggettivo, la Corte di cassazione sottolinea la correttezza dell’approdo cui erano pervenuti i giudici di appello, evidenziando come fosse comprovato il dolo eventuale del delitto di lesioni personali gravissime e non la colpa cosciente, anche alla luce della nota Cass. pen. sez. Unite, n. 38343 del 24/04/2014, E., CED Cass. 261104 – 01.

La Corte d’appello, sottolinea la S.C., si rifà ai principi fissati da tale sentenza delle Sezioni Unite, argomentando sulla prova sufficiente del dolo eventuale tratta dalla durata della relazione in assenza di alcun avviso da parte dell’imputato al suo partner riguardo al rischio di contagio e allo stato di immunodeficienza da HIV del primo, senza adottare sempre le prescritte precauzioni, anzi consentendo l’uso di oggetti personali, come il rasoio, o di pratiche sessuali non suscettibili di facile protezione. La condotta del reo viene ricondotta ai parametri indicati dalle Sezioni Unite, a cominciare dall’indicatore della lontananza della condotta tenuta da quella doverosa: la Corte d’appello rilevava come l’imputato avesse avuto rapporti sessuali non protetti, e altri non suscettibili di protezione, consentendo anche all’uso del rasoio da parte della persona offesa, senza mai informare il partner della patologia della quale era affetto: quindi così teneva una condotta lontana da quella doverosa.

Quanto alla personalità e alle pregresse esperienze dell’agente, nonché alla consapevolezza della probabilità di verificazione dell’evento come conseguenza della condotta, la Corte di appello rilevava come l’imputato fosse affetto da HIV fin dal 1994 e assumeva farmaci, pertanto, aveva l’esperienza e consapevolezza della malattia fin da otto anni prima dell’inizio della relazione con il partner, nonché, conseguentemente, delle cautele a prendersi.

Quanto alla durata e alla ripetizione dell’azione: la Corte d’appello rilevava come la relazione sentimentale e i rapporti sessuali si protrassero per circa 10 anni, e, nel periodo della convivenza di tre/quattro mesi all’anno per sei anni circa, i rapporti erano “un giorno si e un giorno no”, proseguendo anche successivamente, per complessivi dieci anni: osservano le Sezioni Unite E., come solo “Un comportamento repentino, impulsivo, accredita l’ ipotesi di un’insufficiente ponderazione di certe conseguenze illecite. In generale la bravata e l’atto compiuto d’impulso in uno stato emotivo alterato indiziano un atteggiamento di grave imprudenza piuttosto che la volontaria accettazione della possibilità che si verifichino eventi sinistri. Per contro, una condotta lungamente protratta, studiata, ponderata, basata su una completa ed esatta conoscenza e comprensione dei fatti, apre realisticamente alla concreta ipotesi che vi sia stata previsione ed accettazione delle conseguenze lesive“.

Quanto al comportamento successivo al fatto, l’imputato aveva ammesso che mai nulla riferì al partner in ordine alla patologia della quale era affetto, negando, per quanto affermato dalla persona offesa, anche quando il partner, ormai in cura, insospettito, gli chiese a riguardo. Quanto agli ultimi indicatori indicati dalle Sezioni Unite nel fine della condotta e nella compatibilità con esso delle conseguenze collaterali, cioè la congruenza del “prezzo” connesso all’evento non direttamente voluto rispetto al progetto d’azione nonché nella possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento (cosiddetta prima formula di Frank), osserva la S.C. come emerga dalla sentenza che l’imputato avesse voluto avere rapporti a qualunque costo, anche in assenza di protezione e anche rapporti del tipo non suscettibile di protezione, come rilevato dalla Corte di appello richiamando le trascrizioni, circostanze queste neanche contestate dal reo. Aveva pertanto non solo previsto l’evento ma anche voluto lo stesso nei termini indicati da Sez. Un., E.: “Ciò che è di decisivo rilievo è che nella scelta d’azione sia ravvisabile una consapevole presa di posizione di adesione all’evento, che consenta di scorgervi un atteggiamento ragionevolmente assimilabile alla volontà, sebbene da essa distinto: una volontà indiretta o per analogia, si potrebbe dire. In questo risiede propriamente la rimproverabilità, la colpevolezza dell’atteggiamento interno che si denomina dolo eventuale”. Del resto, in termini analoghi, ricorda la Cassazione, si è già espressa la giurisprudenza di legittimità (il riferimento, in sentenza, è a Cass. pen. sez. V, n. 34139 del 21/05/2019, C., CED Cass. 277023; Cass. pen. sez. V, n. 44712 del 17/09/2008, Dell’O., CED Cass. 242610).

Da qui, pertanto, il rigetto del ricorso.

Riferimenti normativi:

Art. 585 c.p.

Art. 43 c.p.

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