Penale
Procedimento in absentia
La decisione della Cassazione sul caso “Cospito”
mercoledì 05 aprile 2023
di La Rocca Elvira Nadia Avvocato in Roma e Professore associato di diritto processuale penale all’Università Roma La Sapienza
Con la sentenza 29 marzo 2023, n. 13258 la I Sezione della Corte di Cassazione penale ha deciso sul ricorso nel noto caso “Cospito” e, pertanto, sulla legittimità del regime di cui all’art. 41-bis disposto nei confronti del ricorrente con decreto del Ministro della Giustizia del 4 maggio 2022. La sospensione delle regole trattamentali ordinarie si sarebbe resa necessaria, a dire della Corte e del Tribunale di sorveglianza competente, al fine di prevenire contatti con l’organizzazione eversiva di appartenenza, data la situazione detentiva del prevenuto e le sue condotte in regime ordinario.
Cassazione penale, Sez. I, sentenza 29 marzo 2023, n. 13258
La vicenda e l’iter procedurale
La decisione della I Sezione della Corte di legittimità costituisce l’esito dell’ordinario iter procedurale che vede coinvolto in primis il tribunale di sorveglianza quale giudice del reclamo avverso il decreto del Ministro di sospensione, nei confronti del detenuto, delle ordinarie regole trattamentali. La sospensione, nella specie, si era basata su elementi di concreta pericolosità e sulla capacità del condannato di mantenere contatti con esponenti dell’organizzazione eversiva di appartenenza.
Il tribunale di sorveglianza, nel rigettare il reclamo, ha ripercorso le ragioni di censura sollevate dal detenuto, circa l’insussistenza dei presupposti di cui al comma 2 dell’art. 41-bis ord. penit., pervenendo alla conclusione della correttezza della valutazione effettuata dal provvedimento ministeriale, basato su un vaglio di sussistenza e attuale operatività dell’associazione criminale, nella quale il ricorrente assumeva un ruolo apicale (art. 4-bis ord. penit.). Le limitazioni detentive imposte, a dire del Tribunale di sorveglianza, per ragioni preventive e di sicurezza, apparivano conformi allo scopo implicato dalla previsione normativa di cui all’art. 41-bis ord. penit.
Avverso l’ordinanza richiamata, il detenuto ha proposto ricorso per cassazione a mezzo dei suoi difensori, deducendo la violazione di legge e la mancanza di motivazione, con richiami massicci ai processi di merito svoltisi a suo carico pure al fine di mettere in dubbio la riconducibilità dell’associazione alla fattispecie di cui all’art. 270-bis c.p. Secondo il ricorrente, inoltre, il tribunale di sorveglianza avrebbe omesso di valutare le ragioni di ordine politico che giustificavano condotte comunicative o divulgative, che avrebbero potuto essere affrontante tramite strumenti proporzionati e meno invasivi e limitativi. Il ricorso, trattato in via anticipata per le precarie ragioni di salute del condannato, di cui non ci si è occupati nel ricorso, è stato ritenuto in parte inammissibile e in parte infondato.
Le ragioni in diritto
La Suprema Corte, scendendo nei dettagli di ogni singola doglianza, ha premesso che, quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, il Ministro -dell’Interno o della Giustizia- ha facoltà di sospendere in tutto o in parte il regime di detenzione ordinario per detenuti resisi responsabili di taluni dei delitti di cui all’art. 4-bis ord. penit., comma 1. Tra le fattispecie richiamate dalla norma rientrano i delitti di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza e la condizione per procedere alla sospensione sta nel soddisfacimento di esigenze di ordine e sicurezza in presenza di elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti tra il detenuto e l’associazione terroristica o eversiva. Tali collegamenti, una volta ritenuti nel provvedimento amministrativo ministeriale, devono essere poi valutati dal Tribunale di sorveglianza, nell’esercizio del vaglio giurisdizionale, il quale, anche secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di legittimità, compie una valutazione dinamica e prognostica del mantenimento dei legami stessi con la realtà criminale di appartenenza, a prescindere dal giudicato di condanna: la valutazione del tribunale, invero, non richiede un accertamento della perdurante condizione di associato del detenuto, ma implica una verifica sull’esistenza di elementi che fondino, sulla base di concrete inferenze logiche e tenuto conto del ruolo svolto dal detenuto nell’associazione, la ragionevole presunzione di mantenimento di contatti con gli esponenti liberi.
Il sindacato della Suprema Corte, invece, ha ad oggetto solo la violazione di legge, riferibile anche alla mancanza o apparenza di motivazione. Avvalendosi di tale precisazione, la motivazione della decisione di legittimità ha colto le differenze tra il sindacato nomofilattico e quello di merito, onde ribadirne la limitatezza in sede di trattamento penitenziario per quel che concerne eventuali impossibilità di rilevare omesse enunciazioni delle ragioni per le quali il tribunale di sorveglianza non abbia ritenuto rilevanti argomenti difensivi, sempre che i dati assunti dalla decisione siano sufficienti a sostenerla.
La soluzione di legittimità sulle singole doglianze
Scendendo nel “merito” delle singole doglianze, la I Sezione della Cassazione ha ritenuto immune da censure l’apparato motivazionale dell’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma, sia in ordine all’esistenza della compagine associativa che in ordine all’appartenenza ad essa del ricorrente, escludendo altresì la violazione di legge con riferimento alla previsione normativa dell’art. 41-bis richiamato dall’art. 41-bis ord. penit.
Il tribunale, invero, secondo la Corte, ha sottoposto a vaglio critico il decreto ministeriale, richiamando i plurimi elementi di fatto disponibili, tesi in sostanza a ripercorrere vicende pregresse, oggetto di procedimenti e sentenze passate in giudicato, al fine di comprovare l’esistenza dell’associazione e l’appartenenza ad essa del detenuto.
Senza scendere troppo nei dettagli relativi ai singoli processi, la Corte di legittimità ha ritenuto le doglianze risolventesi in una diversa ricostruzione storica dei dati fattuali che, come noto, sono insuscettibili di vaglio nomofilattico. La Suprema Corte ha escluso la violazione della normativa di riferimento, non avendo la previsione dell’art. 41-bis, comma 2, ord. penit., una elettiva o fisiologica applicazione per tipi di associazione: essa rinvia, per la individuazione dei delitti, al primo comma dell’art. 4-bis ord. penit., che nel suo contenuto fa riferimento ai delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico mediante atti di violenza.
Con precipuo riferimento ai collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale, la Suprema Corte ha specificato come la norma non indichi ragioni selettive degli elementi che possano dimostrarli, come ad esempio “pizzini” o messaggi criptici in grado di evocare limitazioni oggettive della portata operativa della disposizione. Ciò non toglie che alcuni scritti, come nel caso deciso, possano evocare un agire comunicativo antitetico alle regole essenziali di convivenza sociale, ai fini della dimostrazione della capacità di collegamento del detenuto con gli altri componenti liberi dell’associazione. A prescindere da certi contenuti, la finalità eminentemente preventiva della disciplina dell’art. 41-bis è tesa a impedire contatti tra soggetto recluso e ambiente di provenienza e consente l’adozione del provvedimento di sospensione delle ordinarie regole anche in rapporto alla ragionevole probabilità che certi contatti vengano realizzati ove il soggetto sia posto in regime ordinario.
Ad assumere valore e senso di discrimine, inoltre, sono gli eventuali segnali di dissociazione dal contesto criminale, dei quali nel caso di specie non è stata individuata traccia, l’atteggiamento del detenuto, invece, quello di un potenziale punto di riferimento e fonte di indicazione delle linee programmatiche criminose per gli accoliti in libertà.
Riferimenti normativi: