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È stalking anche costringere qualcuno a chiudere il proprio profilo Facebook

A cura della Redazione Wolters Kluwer

In tema di reati contro la persona, integra il reato di atti persecutori (meglio noto come reato di stalking) anche la condotta consistente nel costringere una persona a chiudere il proprio profilo su una piattaforma di social network (nella specie Facebook) (Cassazione penale, Sez. III, sentenza 7 giugno 2023, n. 24360).

Cassazione penale, Sez. III, sentenza 7 giugno 2023, n. 24360

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi Non si rinvengono precedenti
Difformi Non si rinvengono precedenti

La Corte di Cassazione si sofferma, con la sentenza in commento, su una triste vicenda che aveva visto come protagonista una donna, vittima di angherie, soprusi, abusi e sopraffazioni da parte di un uomo che, nel corso della relazione sentimentale, si era reso responsabile di diversi reati (violenza sessuale, tentata estorsione e atti persecutori). In particolare, tra i punti oggetto di attenzione, ve ne è uno di particolare interesse, anche perché rappresenta, allo stato attuale, una prima applicazione giurisprudenziale in materia, ossia la possibilità di configurare il delitto di stalking, disciplinato dall’art. 612-bis, c.p., anche in situazioni come quella in esame, in cui la vittima era stata minacciata, umiliata, denigrata pesantemente con altre persone e seguita nei suoi spostamenti, così cagionandole un perdurante e grave stato di ansia e di paura, costringendola a cambiare le sue abitudini di vita, in particolare a cambiare numero di telefono, a chiudere il suo profilo Facebook e a evitare di accompagnare il figlio agli allenamenti sportivi.

Il fatto

La vicenda processuale segue alla sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la condanna inflitta dal Tribunale nei confronti di un uomo, in quanto ritenuto colpevole dei reati, tra loro unificati dal vincolo di continuazione, di violenza sessuale, tentata estorsione e atti persecutori. In particolare, secondo l’impostazione accusatoria recepita dal Tribunale, l’imputato costringeva la propria ex, cui era stato legato da una breve relazione sentimentale, a subire in più occasioni rapporti sessuali completi in luoghi appartati, minacciandola di diffondere tra i suoi conoscenti una serie di foto intime scattate in costanza della relazione affettiva; inoltre, sempre dietro la minaccia di divulgare a persone a lei vicine immagini che la ritraevano in atteggiamenti intimi, l’uomo compiva atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere la ex a restituirgli un IPhone e delle somme di denaro che egli le aveva regalato. Infine, l’imputato si rendeva protagonista di atti persecutori in danno della sua ex, minacciandola, umiliandola, denigrandola pesantemente con altre persone e seguendone gli spostamenti, così cagionandole un perdurante e grave stato di ansia e di paura, costringendola a cambiare le sue abitudini di vita, in particolare a cambiare numero di telefono, a chiudere il suo profilo Facebook e a evitare di accompagnare il figlio agli allenamenti sportivi.

Il ricorso

Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione la difesa dell’imputato, in particolare dolendosi della valutazione di attendibilità della persona offesa e della erronea valutazione dei riscontri alla narrazione della stessa, nonché del giudizio sulla configurabilità del delitto di violenza sessuale (e rispetto alla sussistenza delle aggravanti di cui agli art. 609-ter n. 5 quater e 612 comma 2 c.p.), e del reato di tentata estorsione, oltre che del rigetto della richiesta di procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Nulla, stranamente, aveva eccepito la difesa in ordine alla configurabilità dello stalking nella vicenda in esame.

La decisione della Cassazione

La Cassazione, come anticipato, ha disatteso la tesi difensiva.

Non essendosi i Supremi Giudici direttamente occupati della questione giuridica relativa alla configurabilità del reato di atti persecutori nella vicenda in esame, in quanto non investiti della stessa con il ricorso, pare opportuno una seppur sintetica riflessione giuridica sul tema, dovendosi sin dora concludere per la correttezza dell’impostazione accusatoria accolta dai giudici di merito, che avevano ritenuto sussistere il delitto di cui all’art. 612-bis, c.p. nella condotta posta in essere dall’imputato, anche per la parte in cui era stato ritenuto integrato il reato per aver costretto la sua ex a chiudere il profilo Facebook.

Sul punto, merita infatti di essere ricordato che il reato n questione consiste nella condotta di “chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.

La giurisprudenza si è finora occupata di condotte commesse “via web” consistenti in atteggiamento denigratori o intimidatori attuate attraverso i più comuni social network. Ad esempio, si è affermato che integra il delitto la condotta di colui che pubblica messaggi o filmati aventi contenuto denigratorio sui social network qualora i dati diffusi in rete siano fortemente dannosi e fonte di inquietudine per la parte offesa (Cass. pen., Sez. V, 12/6/2019, n. 26049; Cass. pen., Sez. V, 28/12/2017, n. 57764). Si è anche ritenuto che realizzi l’elemento materiale del delitto di atti persecutori il reiterato invio alla persona offesa di sms e di messaggi di posta elettronica o postati sui social network (ad esempio Facebook), nonché la divulgazione attraverso questi ultimi di filmati che riproducono rapporti sessuali intrattenuti dall’autore del reato con la medesima (Cass. pen., Sez. VI, 30/8/2010, 32404).

Ancora, si è ritenuto integrare il delitto di atti persecutori la condotta consistita nel pubblicare sul proprio profilo Facebook messaggi intimidatori rivolti alle persone offese, qualora le stesse ne siano venute a conoscenza (Cass. pen., Sez. V, 17/5/2021, n. 19363). Analogamente, costituisce condotta persecutoria rilevante ai sensi dell’art. 612-bis quella consistita in una serie protratta e reiterata di condotte diffamatorie e moleste e di minacce: nella specie, l’affissione di manifesti e volantini in due diverse città, una video-intervista divulgata tramite il canale YouTube, la pubblicazione di un libro e di numerosi post aventi contenuto diffamatorio sul social network Facebook, nonché ulteriori comportamenti integranti minacce (Cass. pen., Sez. V, 17/1/2022, n. 1813).

Mai, invece, la giurisprudenza si è occupata di vicende come quella in esame, in cui la condotta “stalkerizzante” è consistita nel costringere la vittima a chiudere il proprio profilo social su Facebook. Ora, se si considera che il ricorso a piattaforme di social network è divenuta nel corso di questi ultimi anni una sorta di vetrina per partecipare alla comunità di utenti e soggetti con cui si entra in contatto anche le proprie abitudini e stili di vita, non può non rilevarsi come l’atto di costringere qualcuno a cambiare tali abitudini attraverso la chiusura coatta del proprio profilo social possa in effetti integrare il reato in esame (tanto che viene punito l’atto di “costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”).

Affinché possa dirsi integrata l’alterazione delle abitudini di vita, non è infatti sufficiente la percezione di transitori fastidi o disagi nelle occupazioni di vita della persona offesa; occorre, infatti, una costrizione apprezzabile, sotto il profilo qualitativo, delle abitudini quotidiane (Cass. pen., Sez. V, 14/1/2021, n. 1541). L’alterazione delle abitudini di vita può anche essere transitoria, ma non occasionale (Cass. pen., Sez. V, 6/5/2021, n. 17552). Sempre con specifico riguardo al cambiamento delle abitudini di vita, si è precisato che bisogna considerare il significato e le conseguenze emotive della costrizione sulle abitudini di vita cui la vittima sente di essere costretta e non la valutazione, puramente quantitativa, delle variazioni apportate (Cass. pen., Sez. V, 6/3/2018, n. 10111; Cass. pen., Sez. V, 9/6/2014, n. 24021). E, non vi è dubbio, che costringere qualcuno a chiudere il proprio profilo social è condotta che costringe la vittima a cambiare le proprie abitudini di vita, soprattutto nei casi in cui quotidianamente la stessa effettui accessi, sovente anche plurimi, alla piattaforma, impedendole di esternare il proprio pensiero e di mantenere i contatti con amici e familiari sul web.

Riferimenti normativi:

Art. 612-bis c.p.

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