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È truffa far sottoscrivere con l’inganno al cliente un patto di quota lite

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Reati contro il patrimonio

Reati contro il patrimonio

di Scarcella Alessio Consigliere della Corte Suprema di Cassazione

Integra il reato di truffa contrattuale, la condotta consistente nel far sottoscrivere ad un cliente, senza informarlo circa l’effettiva valenza, un patto di quota lite, non rilevando l’intervenuta sottoscrizione del patto e la mancanza di querela di falso, ove la mancata adeguata rappresentazione del suo contenuto sia frutto di condotte decettive susseguitesi per tutto il periodo intercorrente tra la formale sottoscrizione del negozio e la revoca del mandato e concretizzatesi nel non avanzare formale richiesta di pagamento del debito (pur prevista dallo stesso patto), ma nel porre in essere una serie di azioni giudiziarie in uno stretto lasso di tempo, sfruttando la mancata conoscenza dei fatti creata ad arte, attraverso cui conseguire il pignoramento e la successiva consegna di consistenti somme di denaro da parte dell’istituto di credito depositario delle stesse che l’autorità giudiziaria aveva riconosciuto in favore del cliente. È quanto si legge nella sentenza della Cassazione penale 14 giugno 2023, n. 25766.

Cassazione penale, Sez. VI, sentenza 14 giugno 2023, n. 25766

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi Cass. pen. sez. II, 13/10/2011, n. 36891
Difformi Non si rinvengono precedenti in termini

La Corte di Cassazione si sofferma, con la sentenza in commento, su una questione di particolare interesse, afferente in particolare alla configurabilità del reato di truffa contrattuale nella condotta dell’avvocato che faccia sottoscrivere al cliente, senza informarlo della valenza e del contenuto, un patto di quota lite, ottenendo, tramite condotte decettive, il conseguimento di un ingiusto profitto con danno per il medesimo. Sul punto i Supremi Giudici hanno ritenuto sussistente il reato in una vicenda dai contorni assai preoccupanti che investono non solo l’area del penalmente rilevante, ma innegabili profili di deontologia forense, costituendone un’evidente negazione.

Il fatto

La vicenda processuale segue alla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva confermato agli effetti civili la sentenza del Tribunale, prosciogliendo gli imputati per prescrizione dai reati contestati (patrocinio infedele e truffa contrattuale), perché, quali patrocinatori di alcuni soggetti, nell’ambito di una causa civile di risarcimento danni instaurata nel loro interesse dinanzi al Tribunale, si rendevano infedeli ai doveri professionali; in particolare, facevano sottoscrivere alle persone offese un mandato recante pattuizioni economiche sproporzionate, omettevano di informare i clienti delle azioni intraprese in loro nome e dei relativi esiti e azionavano nei loro confronti provvedimenti monitori, così arrecandogli un gravissimo nocumento economico; al contempo, per mezzo delle citate omissioni e condotte infedeli si procuravano un ingiusto profitto con pari danno per le persone offese corrispondente ai compensi indebitamente conseguiti ed ammontanti ad Euro 669,773,70 in uno all’acconto per anticipo spese ricevuto in contante per Euro 10.000.

Il ricorso

Contro la sentenza proponevano ricorso per Cassazione i due avvocati, in particolare dolendosi, per quanto qui di interesse, della sussistenza del reato di truffa contrattuale posto in essere ai danni dei loro clienti, sostenendo che il patto di quota lite fosse legittimo e che la condotta si fosse esaurita in tale contesto.

La decisione della Cassazione

La Cassazione, come anticipato, ha disatteso la tesi difensiva.

In particolare, la S.C. ha rilevato come tutte le testimonianze e le risultanze istruttorie avessero fatto emergere che detto patto, pur firmato (da cui l’irrilevanza della mancanza di querela di falso), non fosse stato adeguatamente rappresentato e che anzi ne fosse stata celata l’effettiva valenza con plurime condotte decettive susseguitesi per tutto il periodo intercorrente tra la formale sottoscrizione del negozio e la revoca del mandato, non prima che i due avvocati, senza neppure avanzare formale richiesta di pagamento del debito (pur prevista dallo stesso patto), attraverso una serie di azioni giudiziarie poste in essere in uno stretto lasso di tempo e sfruttando la mancata conoscenza dei fatti creata ad arte, conseguissero il pignoramento e la successiva consegna di consistenti somme di denaro da parte dell’istituto di credito depositario delle stesse che l’autorità giudiziaria aveva riconosciuto in favore delle parti civili costituite.

La sentenza merita di essere condivisa.

Tecnicamente, il patto di quota lite è l’accordo sul compenso tra avvocato e cliente, che prevede l’attribuzione all’avvocato di una quota dei beni o diritti del cliente. Nel nostro ordinamento l’istituto è stato per lungo tempo vietato dall’art. 2233, comma 3 c.c., che nella formulazione originaria proibiva agli avvocati, anche per interposta persona, di stipulare con i loro clienti patti relativi ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, sotto pena di nullità e dei danni.

La norma codicistica era rinforzata dal divieto deontologico dell’art. 45 C.D.F., che vietava l’accordo tra avvocato e cliente diretto ad ottenere quale corrispettivo dell’attività una percentuale del bene controverso ovvero una percentuale rapportata al valore della lite. Il disvalore della condotta era ravvisato nella partecipazione del professionista agli interessi economici del cliente, esterni alla sua prestazione. L’obiettivo era quello di salvaguardare la probità e la dignità della professione forense, al servizio dell’amministrazione della giustizia prima ancora che agli interessi economici sottesi all’esercizio dell’azione giudiziaria.

Nel 2006, durante il secondo Governo Prodi, il divieto (a lungo considerato assoluto) venne abrogato con il D.L. n. 223/2006 (convertito in L. n. 248/2006). Al primo comma dell’art. 2 del citato decreto si legge come l’obiettivo del legislatore governativo fosse quello di dare attuazione al principio comunitario di libera concorrenza, di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, ed assicurare agli utenti un’effettiva facoltà di scelta nell’esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato. La formulazione dell’art. 2233, dopo la modifica del 2006, si limitava a stabilire la nullità dei patti sul compenso, se non redatti in forma scritta, aprendo dunque alla possibilità di convenire per iscritto il patto di quota lite. È stata però la nuova legge professionale n. 247/2012 a ripristinare il divieto, prevedendo al comma 4 dell’art. 13 che “Sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa”.

I fatti cui si riferisce la decisione in esame sono emblematici della “pericolosità” insita nella sottoscrizione di un patto di quota lite, oggi vietato, ove il cliente non fosse stato adeguatamente informato delle conseguenze e del significato di tale “patto”. La sentenza in esame, dunque, nel confermare, sia pure agli effetti civili, la configurabilità della truffa contrattuale, si pone in linea con quella giurisprudenza di legittimità che già aveva ritenuto che integrasse il reato di truffa la condotta dell’avvocato che, approfittando del rapporto fiduciario e dell’estraneità alle questioni giuridiche della persona offesa, proponga e faccia sottoscrivere al proprio assistito – nella specie all’esito di un procedimento civile per risarcimento danni conclusosi con sentenza che accerta e liquida l’ammontare del danno – il patto di quota lite, tacendone l’illiceità nonché l’entità sproporzionata dell’importo derivante a titolo di compenso delle prestazioni professionali (Cass. pen. sez. II, n. 36891 del 13/10/2011, CED Cass. 251122 – 01).

Si tratta del resto di decisione che fa da pendant a quella giurisprudenza che ha ritenuto integrare il reato di truffa contrattuale nella condotta del professionista che, tramite artifizi e raggiri, nasconde una propria inadempienza al cliente, il quale, ignorando tale circostanza, rinnova il mandato al professionista, continuando a retribuirlo e consentendogli così di percepire un ingiusto profitto (Fattispecie relativa ad un consulente tributario che ometteva di presentare la dichiarazione fiscale del proprio cliente, al quale garantiva invece di avervi provveduto, incassando per l’attività fittizia svolta la somma di 1735,00 euro: Cass. pen. sez. II, n. 49472 del 27/11/2014, CED Cass. 261001).

Riferimenti normativi:

Art. 13, comma 4, L. n. 247/2012

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