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La polizia non riesce ad evitare il decesso per overdose di un arrestato: la CEDU condanna l’Italia

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Penale

Diritto alla vita

La polizia non riesce ad evitare il decesso per overdose di un arrestato: la CEDU condanna l’Italia

mercoledì 20 settembre 2023

di Scarcella Alessio Consigliere della Corte Suprema di Cassazione

Pronunciandosi su un caso “italiano” in cui si discuteva della legittimità del comportamento delle autorità di polizia cui era stato addebitato di non aver fatto tutto il possibile per impedire la morte da overdose di stupefacenti di un uomo che si trovava in stato di arresto nei locali della Questura di Milano, la Corte EDU ha ritenuto, a maggioranza, che vi fosse stata una violazione dell’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU, Sez. I, 14 settembre 2023, n. 2264/12, A. ed altri c. Italia).

Corte EDU, Sez. I, 14 settembre 2023, n. 2264/12, A. ed altri c. Italia

Il fatto

Il caso, deciso il 14 settembre 2023, traeva origine dal ricorso (n. 2264/12) contro la Repubblica Italiana, presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione e.d.u., da R.A., N.C. e G.D., tre cittadine italiane, residenti a Milano, rispettivamente madre, figlia e compagna di CC.

La mattina presto del 10 maggio 2001 CC fu arrestato insieme ad altri tre individui nel corso di un’operazione contro il narcotraffico mentre usciva dal suo appartamento a Milano. CC sembrava essere in cattive condizioni psicologiche e fisiche, probabilmente a causa del consumo di stupefacenti. Gli è stato permesso di riposare disteso in un’auto della polizia. Aveva però conati di vomito, con un liquido trasparente che gli colava dalla bocca. Alle 3,30 CC è stato trasferito, ammanettato, in una camera di sicurezza della Questura di Milano. Alle 5.50 ha chiesto di poter usare il bagno. Aveva iniziato a vomitare ed era svenuto; il rapporto rilevava che la saliva usciva dalla bocca e il sangue dal naso. Il pubblico ufficiale che lo aveva portato in bagno aveva dichiarato di non aver prestato “continua attenzione a [CC], poiché [ero stato] impegnato a scattare fotografie di altre persone”.

Veniva chiamata un’ambulanza, con CC che sembrava essere in uno stato cianotico, con difficoltà respiratorie e convulsioni. Alle 6.07 era arrivata l’ambulanza. CC era stato però dichiarato morto alle 6.16 all’ospedale Fatebenefratelli. Veniva eseguita l’autopsia, che riscontrava gonfiore del cervello e dei polmoni causato da sangue fluido, congestione degli organi interni e macchie petecchiali compatibili con una morte naturale caratterizzata da difficoltà respiratorie o morte per asfissia. Il patologo non era però stato in grado di determinare la causa esatta della morte. Un rapporto successivo pubblicato nel 2003 aveva concluso che la causa della morte era stata un’intossicazione acuta da cocaina assunta in un momento “prossimo alla sua morte”. Nell’aprile 2003 i pubblici ministeri decidevano di non aprire un’indagine poiché non c’erano prove che fosse stato commesso un illecito penale da parte di terzi.

I ricorrenti hanno citato in giudizio il Ministero dell’Interno per mancata assistenza ad una persona in pericolo (omissione di soccorso) e per mancata adeguata sorveglianza (omessa sorveglianza). Il tribunale di Milano ha ritenuto responsabile il Ministero, concludendo che la polizia non aveva perquisito la persona di CC al momento dell’arresto, o che la sorveglianza su di lui era stata inadeguata, poiché era in possesso di una grande quantità di cocaina al momento dell’arresto, senza che la parte restante non venisse sequestrata mentre egli si trovava in questura per non averlo perquisito.

Ha aggiunto che in questo caso gli agenti di polizia avevano la responsabilità per non aver chiesto al PM del tribunale il permesso di eseguire una perquisizione personale. Il tribunale ha assegnato 100.000 euro di risarcimento danni alla madre di CC e 125.000 euro a sua figlia.

La Corte d’Appello di Milano aveva però annullato tale decisione, non rilevando alcuna responsabilità civile da parte del Ministero. Essa ha evidenziato – senza specifica motivazione – che, sebbene la causa immediata della morte di CC fosse stata l’ingestione di una grande quantità di cocaina poco prima della sua morte, essa era stata causata anche dall’ingestione di cocaina al momento dell’arresto e che la morte era avvenuta all’improvviso «perché [aveva] trovato terreno fertile in un organismo che era stato messo a dura prova da una precedente ingestione – o ingestioni – di farmaci”.

Nel 2011 la Corte di Cassazione ha ritenuto di non poter rivisitare la ricostruzione dei fatti così come esposta dalla Corte d’Appello e che quest’ultima era giunta alle sue conclusioni in modo logico e motivato.

Il ricorso e le norme violate

Rivolgendosi alla Corte di Strasburgo, basandosi sull’articolo 2 (diritto alla vita), i ricorrenti si erano lamentati del fatto che le autorità non avevano adottato misure adeguate a proteggere la vita di CC mentre si trovava sotto la custodia della polizia.

Il ricorso è stato depositato dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo il 23 dicembre 2011.

La decisione della Corte di Strasburgo

La Corte EDU ha ribadito che il diritto alla vita è una delle disposizioni fondamentali della Convenzione e che le autorità sono obbligate a rendere conto del trattamento degli individui che si trovino sotto la custodia della polizia a causa della loro posizione vulnerabile. Ha ribadito che, per quanto riguarda le lesioni e la morte avvenute durante la detenzione, si può ritenere che spetti alle autorità l’onere della prova, ossia di fornire una spiegazione soddisfacente e convincente.

I giudici europei hanno anzitutto affermato che, sebbene non vi fossero prove sufficienti per dimostrare che le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere dell’esistenza di un rischio reale e immediato che CC potesse ingerire una dose letale di cocaina, esse avevano il dovere di prendere le misure e le precauzioni minime per ridurre al minimo eventuali rischi per la sua salute e il suo benessere, in particolare dato che non stava bene ed era in uno stato di alterazione, visto che la cocaina era stata sequestrata sulla sua persona al momento del suo arresto ed era noto alla polizia come tossicodipendente.

CC non aveva mai ricevuto cure mediche dopo il suo arresto. Non risulta che fosse stato perquisito mentre si trovava presso la Questura di Milano. Per quanto riguarda l’argomentazione del Governo secondo cui una perquisizione personale di CC avrebbe sollevato problemi ai sensi di altri articoli della Convenzione, la Corte ha affermato che sarebbe certo eccessivo perquisire tutti gli arrestati, ma che tuttavia ciò non liberava le autorità dai suoi doveri in materia, in particolare per accertare che nella fattispecie CC non avesse con sé droga al momento del suo arrivo alla Questura di Milano.

La Corte non è stata in grado di concludere sulla base degli atti che tali misure fossero state adottate. Inoltre, non era chiaro se CC fosse stato adeguatamente sorvegliato, e non tutti gli agenti coinvolti erano stati interrogati dai pubblici ministeri. Il Governo non era quindi riuscito a confutare le accuse dei ricorrenti con argomenti o prove adeguati. La Corte ha quindi concluso che le autorità non avevano fornito a CC una protezione sufficiente e ragionevole della sua vita, in violazione dell’articolo 2 della Convenzione.

Infine, la Corte di Strasburgo ha ritenuto, a maggioranza (6 voti contro 1), che l’Italia dovesse pagare ai ricorrenti in solido a titolo di equa soddisfazione ex art. 41CEDU la somma di 30.000 euro a titolo di danno morale e di 10.000 euro a titolo di costi e spese. Si segnala che il giudice Bošnjak ha espresso un’opinione dissenziente, che è allegata alla sentenza.

I precedenti ed i possibili impatti pratico-operativi

Interessante la questione esaminata dalla sentenza emessa dalla Corte di Strasburgo nel caso in esame, conclusasi con l’accertamento della violazione del diritto alla vita da parte dello Stato italiano per la morte di un tossicodipendente, deceduto per overdose da stupefacenti mentre si trovava in stato di arresto nei locali della Questura di Milano.

Assai rigoroso l’approccio dei giudici europei che hanno stigmatizzato il comportamento delle autorità di polizia, nonostante si fosse conclusa favorevolmente la causa risarcitoria intentata dagli eredi contro lo Stato, per non aver fatto tutto il possibile per evitare che l’uomo morisse mentre si trovava sotto la custodia delle forze dell’ordine. Si è rimproverato, in particolare, alla polizia di non aver chiesto al Pm l’autorizzazione a svolgere una perquisizione personale dell’arresto, il quale, si è fatto notare, era stato trovato in possesso di una consistente quantità di stupefacenti e, al momento dell’arresto, si presentava in condizioni fisiche precarie, in quanto vomitava ed aveva perdite di sangue dal naso.

In altri termini, per la Corte EDU la condotta delle autorità, che pur aveva ricevuto l’autorevole avallo dei giudici di seconda istanza e della Cassazione – dopo che il giudizio di primo grado si era concluso invece con l’accertamento della responsabilità dell’Amministrazione -, non poteva considerarsi scevra da colpe, non essendo state adottate quelle misure e precauzioni minime per impedire il decesso.

La decisione, si noti, si pone in linea con la consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo sul tema. La Corte EDU è infatti solita ricordare che l’articolo 2, che tutela il diritto alla vita, è considerato una delle disposizioni più importanti della Convenzione. La prima frase dell’articolo 2 impone agli Stati contraenti non solo di astenersi dall’uccisione “volontaria” o mediante “uso della forza” sproporzionato rispetto agli scopi legittimi di cui alle lettere da a) a c) del secondo comma di tale disposizione, ma anche di adottare misure adeguate per salvaguardare la vita di coloro che sono soggetti alla loro giurisdizione (si veda, inter alia, CEDU, L.C.B. c. Regno Unito, 9/6/1998, n. 23413/94, § 36; CEDU, K. c. Regno Unito, 3/4/2001, n. 27229/95, § 89).

La Corte EDU sottolinea inoltre che le persone detenute si trovano in una posizione vulnerabile e che le autorità hanno l’obbligo di rendere conto del loro trattamento. La Corte ha inoltre ritenuto che l’obbligo di tutelare la salute e il benessere delle persone detenute comprende chiaramente l’obbligo di adottare misure ragionevoli per proteggerle da eventuali danni (si veda CEDU, M. c. Slovacchia, 14/12/2010, n. 74832/01, § 89; E. e P. c. Repubblica ceca, 16/2/2012, n. 23944/04, § 115; CEDU, D. c. Croazia, 17/1/2023, n. 84523/17, § 88).

Come regola generale, il semplice fatto che un individuo sia morto in circostanze sospette mentre era sotto la custodia della polizia dovrebbe sollevare la questione se lo Stato abbia adempiuto al suo obbligo di tutelare il diritto alla vita di quella persona (si veda CEDU, S. c. Francia, 27/7/2004, n. 57671/00, § 27). Tale obbligo deve essere interpretato in modo da non imporre un onere impossibile o sproporzionato alle autorità, tenendo presenti le difficoltà legate al controllo delle società moderne, l’imprevedibilità della condotta umana e le scelte operative che devono essere fatte in termini di priorità e risorse (si vedano, tra gli altri, CEDU, R. c. Francia, 16/10/2008, n. 5608/05, § 82; CEDU, S. c. Russia, 14/2/2012, n. 9296/06, § 90).

Un obbligo positivo sorgerà, ha ritenuto la Corte, laddove sia accertato che le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere, al momento dei fatti, dell’esistenza di un rischio reale e immediato per la vita di una persona identificata e che non hanno adottato misure nell’ambito dei loro poteri che, giudicate ragionevolmente, ci si poteva aspettare che evitassero tale rischio (vedi CEDU, K., sopra citata, § 90; CEDU, P.A.E. c. Regno Unito, 14/3/2002, n. 46477/99, § 55; mutatis mutandis, CEDU, O. c. Regno Unito, 28/10/1998, n. 23452/94, § 116).

Tuttavia, la Corte ha ritenuto che in alcuni contesti, come la detenzione nelle stazioni di polizia, anche quando non è dimostrato che le autorità fossero a conoscenza o avrebbero dovuto essere a conoscenza di tale rischio, esistono alcune precauzioni di base che gli agenti di polizia dovrebbero adottare in ogni caso al fine di ridurre al minimo qualsiasi rischio potenziale per la salute e il benessere della persona arrestata (si veda D., sopra citata, § 84; CEDU, F. c. Russia, 18/6/2015, n. 41675/08, § 48); E. e P. sopra citata, § 110; e, mutatis mutandis, M., sopra citata, § 89; CEDU, PH c. Slovacchia, 8/9/2022, n. 37574/19, § 113).

Nel valutare le prove, la Corte adotta il livello della prova “oltre ogni ragionevole dubbio”. Tuttavia, tale prova può derivare dalla coesistenza di inferenze sufficientemente forti, chiare e concordanti o di simili presunzioni di fatto non confutate. Quando gli eventi in questione sono interamente o in gran parte nell’esclusiva conoscenza delle autorità, come nel caso delle persone sotto il loro controllo in custodia, sorgeranno forti presunzioni di fatto per quanto riguarda le lesioni e la morte avvenute durante tale detenzione. In effetti, si può ritenere che spetti alle autorità l’onere della prova, ossia fornire una spiegazione soddisfacente e convincente (si veda, tra le tante, CEDU, A. c. Bulgaria, 13/6/2002, n. 38361/97, §§ 109-11). La Corte ribadisce poi che, alla luce dell’importanza della protezione offerta dall’articolo 2, deve sottoporre le denunce relative alla perdita di vite umane all’esame più attento, prendendo in considerazione tutte le circostanze pertinenti (si veda, tra molte altre autorità, CEDU, K. e altri c. Finlandia, 17/9/2020, n. 62439/12, § 84).

Interessante, si noti, il profilo sottoposto all’esame della Corte da parte del Governo italiano, secondo cui sottoporre CC a una perquisizione personale, a suo avviso, non sarebbe stata, in ogni caso, giustificata nel caso di specie in quanto avrebbe potuto sollevare problemi ai sensi di altri articoli della Convenzione per la sua natura invasiva.

La Corte ricorda sul punto che l’essenza stessa della Convenzione è il rispetto della dignità umana e della libertà umana e che le autorità devono adempiere ai propri compiti in modo compatibile con i diritti e le libertà dell’individuo interessato (si veda CEDU, F. de O. c. Portogallo [GC], 31/1/2019, n. 78103/14, § 112). La Corte ha inoltre ritenuto che le misure che possono ledere la dignità umana, adottate senza un’adeguata giustificazione, possono dar luogo a questioni ai sensi di altri articoli della Convenzione, come gli articoli 3 e 8 (si veda, mutatis mutandis, CEDU, F. e P. c. Italia, 19/3/2020, n. 41603/13, § 77). La Corte, infatti, ritiene che sarebbe eccessivo richiedere che tutte le persone arrestate siano sottoposte, come precauzione elementare e quindi di routine, a perquisizioni personali per prevenire eventi tragici come quello di specie, e concorda che tale esigenza potrebbe dar luogo a questioni ai sensi di altri articoli della Convenzione (v., ad esempio, CEDU, V.der V. c. Paesi Bassi, 4/2/2003, n. 50901/99, §§ 61-62, dove perquisizioni lunghe e routinarie senza giustificazione convincente sono state riconosciute come costituenti una violazione dell’articolo 3).

Al tempo stesso, però, osservano i giudici europei, tale conclusione non può essere interpretata nel senso di dispensare le autorità dal compiere qualsiasi iniziativa per accertare la presenza di oggetti pericolosi o proibiti, tra cui sostanze stupefacenti, come avvenuto nel caso della persona di CC al suo arrivo presso la Questura di Milano, soprattutto alla luce delle informazioni disponibili e del fatto che le autorità non avevano fornito cure mediche a CC, nonostante il sospetto che fosse sotto l’effetto di droghe.

La Corte EDU si dimostra poi consapevole del fatto che gli obblighi positivi devono essere interpretati in modo da non imporre un onere sproporzionato alle autorità, e in effetti non vuole suggerire che CC avrebbe dovuto ricevere la completa attenzione di un singolo agente durante tutta la sua detenzione in Questura. Ciò premesso, tenuto conto degli elementi di cui le autorità erano a conoscenza, nonché del fatto che CC non aveva ricevuto alcuna assistenza medica e la sua persona non era stata controllata al suo arrivo in Questura, le autorità avrebbero dovuto mostrare maggiore vigilanza nel suo controllo.

La Corte EDU ha dunque ritenuto che il Governo non abbia fornito argomentazioni o prove soddisfacenti e convincenti per contrastare le affermazioni dei ricorrenti, supportate da prove prima facie, secondo le quali CC non era stato adeguatamente sorvegliato durante il periodo di detenzione.

Da qui, dunque, la condanna per il nostro Stato. Occorrerà adesso attendere tre mesi per verificare l’intenzione dell’Italia se chiedere o meno la rimessione della questione alla Grande Camera. In realtà, a ben vedere, vi sarebbero adeguati spazi per una richiesta in tal senso, soprattutto alla luce delle considerazioni svolte dal giudice Bošnjak il quale, molto opportunamente, si è dichiarato in disaccordo con la maggioranza nel ritenere che vi sia stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione nel caso di specie a causa della presunta insufficiente tutela della vita del parente del ricorrente, CC, durante la sua custodia.

Sebbene gli eventi del presente caso siano indubbiamente tragici, tuttavia, si osserva, non dovrebbero mettere in ombra la necessità di un’analisi giuridica approfondita della denuncia dei ricorrenti. In particolare, non sfugge all’opinione dissenziente come la Corte EDU debba ancora pronunciarsi sulla questione se una presunta omissione da parte delle autorità statali costituisca un mancato rispetto dell’obbligo positivo dell’Alta Parte Contraente di tutelare il diritto della persona alla vita e debba quindi portare alla constatazione di una violazione dell’articolo 2 della Convenzione. “Con mio rammarico – si legge – in questo caso la Camera ha perso un’occasione per farlo”.

Lo scopo dell’opinione dissenziente non è quello di offrire un insieme completo di principi e metodologia per esaminare denunce come quella nel caso di specie. Tuttavia, si sottolinea che esiste un percorso giuridico lungo e tortuoso che porta dall’accusa di un’omissione alla conclusione che tale omissione si è effettivamente verificata ed è stata la causa del tragico esito di cui lo Stato convenuto dovrebbe essere ritenuto responsabile. Per lo meno ciò che dovrebbe essere stabilito è:

  1. a) se le autorità statali avessero un dovere di agire in un modo specifico nelle circostanze in esame,
  2. b) se le autorità dello Stato non hanno agito conformemente a tale dovere e
  3. c) se, nel caso in cui le autorità statali avessero adempiuto a tale dovere, la morte non si sarebbe verificata.

A tali quesiti, l’opinione dissenziente cerca di fornire una soluzione svolgendo le seguenti considerazioni. Anzitutto, anche supponendo che nel caso di specie vi fosse un obbligo di fornire assistenza medica durante la custodia, è difficile vedere come tale assistenza di per sé avrebbe potuto impedire a CC di ingerire la dose letale di cocaina che aveva tenuto nascosta e che, secondo gli accertamenti dei tribunali interni, aveva consumato mentre si trovava nel bagno.

In secondo luogo, si osserva come la maggioranza avesse sottolineato il mancato controllo di CC sulla presenza di droga al suo arrivo presso la Questura di Milano, ma non si vede come tale “controllo” avrebbe potuto rivelare qualcosa di più della perquisizione effettuata in precedenza, subito dopo il suo arresto, e nel corso del quale era stata comunque rinvenuta una sostanza somigliante alla cocaina: in breve, il giudice dissenziente non individua alcun obbligo legale di perquisire CC che le autorità non abbiano rispettato nel caso di specie.

Infine, sul rimprovero della mancata sorveglianza di CC presso i locali della Questura, osserva il giudice dissenziente come anche se potrebbe esserci il dovere di un ufficiale di essere presente al posto di controllo per monitorare la camera di sicurezza in ogni momento e questo dovere potrebbe non essere stato pienamente rispettato, il giudice afferma di far “fatica a capire come ciò sia rilevante nel caso di specie”.

In particolare, in linea con l’accertamento fattuale della Corte d’Appello, CC molto probabilmente ha ingerito la dose letale di cocaina nel bagno e non nella camera di sicurezza, dove aveva entrambe le mani ammanettate. Pertanto, in linea con il criterio (c) delineato supra, non è possibile concludere per il giudice dissenziente che se un pubblico ufficiale fosse stato costantemente presente sul posto di controllo, CC non avrebbe potuto consumare la droga nascosta e quindi la sua morte non si sarebbe verificata.

Esito del ricorso:

Accolto

Precedenti giurisprudenziali:

Corte e.d.u., L.C.B. c. Regno Unito, 9 giugno 1998

Corte e.d.u., K. c. Regno Unito, 3 aprile 2001

Corte e.d.u., M. c. Slovacchia, 14 dicembre 2010

Corte e.d.u., E. e P. c. Repubblica ceca, 16 febbraio 2012

Corte e.d.u., D. c. Croazia, 17 gennaio 2023

Corte e.d.u., S. c. Francia, 27 luglio 2004

Corte e.d.u., R. c. Francia, 16 ottobre 2008

Corte e.d.u., S. c. Russia, 14 febbraio 2012

Corte e.d.u., P e A. E. c. Regno Unito, 14 marzo 2002

Corte e.d.u., O. c. Regno Unito, 28 ottobre 1998

Corte e.d.u., F. c. Russia, 18 giugno 2015

Corte e.d.u., PH c. Slovacchia, 8 settembre 2022

Corte e.d.u., A. c. Bulgaria, 13 giugno 2002

Corte e.d.u., K. e altri c. Finlandia, 17 settembre 2020

Corte e.d.u., F. de O. c. Portogallo [GC], 31 gennaio 2019

Corte e.d.u., F. e P. c. Italia, 19 marzo 2020

Corte e.d.u., V. c. Paesi Bassi, 4 febbraio 2003

Riferimenti normativi:

Convenzione e.d.u., art. 2 (violazione)

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