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Illegittimo decurtare l’indennizzo per ingiusta detenzione all’assolto per essersi avvalso della facoltà di non rispondere

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Penale

Ingiusta detenzione

Illegittimo decurtare l’indennizzo per ingiusta detenzione all’assolto per essersi avvalso della facoltà di non rispondere

giovedì 14 dicembre 2023

a cura della Redazione Wolters Kluwer

Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso l’ordinanza con cui la Corte d’appello, pur riconoscendo ad un soggetto l’indennizzo previsto dalla legge per aver subito oltre 1000 giorni di detenzione “ingiusta” per essere stato assolto con sentenza irrevocabile dal reato di omicidio volontario, aveva tuttavia decurtato il quantum dell’ammontare di tale indennizzo ritenendo sussistere la sua colpa “lieve” per essersi avvalso della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio davanti al giudice, la Corte di Cassazione penale, Sez. IV, con la sentenza 4 dicembre 2023, n. 48080 – nell’accogliere la tesi difensiva secondo cui i giudici di appello non avevano indicato in che misura ed entro quali limiti il comportamento silente avesse influito sull’applicazione della misura – ha riaffermato il principio secondo cui in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, a seguito della modifica dell’art. 314 c.p.p. ad opera dell’art. 4, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 8 novembre 2021, n. 188, l’esercizio della facoltà di cui all’art. 64, comma 3, lett. b) c.p.p., oltre a non costituire causa ostativa al riconoscimento dell’indennizzo, non può essere considerato ai fini della diminuzione del quantum dell’indennizzo, assumendo un valore neutro non suscettibile di integrare una ipotesi di colpa lieve.

Cassazione penale, Sez. IV, sentenza 4 dicembre 2023, n. 48080

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi Non si rinvengono precedenti
Difformi Non si rinvengono precedenti

Prima di soffermarci sulla pronuncia resa dalla Suprema Corte, deve essere ricordato che l’art. 314, c.p.p., sotto la rubrica «Presupposti e modalità della decisione», prevede al comma 1 che “chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave. L’esercizio da parte dell’imputato della facoltà di cui all’articolo 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione di cui al primo periodo”.

L’istituto della riparazione per l’ingiusta detenzione è stato introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento con il nuovo codice di procedura penale, ed è merito della giurisprudenza costituzionale averne ampliato l’ambito di operatività, dando attuazione ad un corollario del principio del giusto processo. A seguito degli interventi della Consulta, infatti, il diritto alla riparazione spetta anche per la detenzione ingiustamente patita a seguito di erroneo ordine di esecuzione (Corte cost. 25/7/1996, n. 310, in GI, 1997, I, 65) e nell’ipotesi di detenzione subita a causa di arresto in flagranza o di fermo di indiziato, ove risulti che erano insussistenti le condizioni per l’applicazione di dette misure pre-cautelari ovvero per la loro convalida (Corte cost. 2/4/1999, n. 109, in CorG, 1999, 756).

La giurisprudenza ha poi precisato che anche in tale ipotesi è necessario che non ricorra un comportamento doloso o gravemente colposo dell’interessato (Cass. pen., Sez. IV, 26/7/2023, n. 32380) che sia stato concausa dell’errore o del ritardo nell’emissione del nuovo ordine di esecuzione recante la corretta data del termine di espiazione della pena (Cass. pen., Sez. IV, 20/7/2022, n. 28452).

Il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, riconducibile al principio della tutela delle vittime di errori giudiziari sancito nell’art. 24 Cost., è riconosciuto anche nelle fonti internazionali; più precisamente il diritto ad una riparazione in ipotesi di arresto o detenzione illegale è previsto dall’art. 5, par. 5, CEDU, ratificata con L. 4/8/1955, n. 848 e dall’art. 9, par. 5, Patto internazionale per i diritti civili e politici, ratificato con L. 25/10/1977, n. 881. Con la Raccomandazione R(80) 11 del 27/6/1980, di fronte alle disparità normative degli Stati membri del Consiglio d’Europa, il Comitato dei Ministri ha sollecitato un adeguamento della disciplina interna nel senso di una espressa introduzione di «une procédure d’indemnisation des personnes qui ont fait l’objet d’une détention provisoire et qui, par la suite, ne sont pas condamnées» (Vanzin, Riparazione dell’ingiusta custodia cautelare e cooperazione internazionale, in IP, 1995, 815).

Il diritto alla riparazione viene meno ove il soggetto sottoposto a misura cautelare ponga in essere, con dolo o colpa grave, una condotta che abbia nesso causale con l’applicazione, o il mantenimento, della stessa misura cautelare. Tale condizione ostativa al sorgere del diritto deve ritenersi limitata alla sola ipotesi della c.d. detenzione ingiusta (art. 314, comma 1). Anche nelle fonti internazionali, e precisamente l’art. 3, protocollo 7, Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, concernente l’estensione della lista dei diritti civili e politici, adottato a Strasburgo il 22/11/1984, ratificato in Italia con L. 9/4/1990, n. 98, il diritto all’indennizzo viene meno ove sia provata la mancata rivelazione in tempo utile di fatti noti all’indagato ed in grado di vincere le ragioni di cautela (Cass. pen., Sez. IV, 9/7/2009, in Mass. Uff., 245311).

In assenza di una puntuale indicazione del legislatore circa il significato da attribuire al concetto di dolo o colpa aventi nesso eziologico con l’applicazione – o il mantenimento – della misura cautelare, la giurisprudenza è pervenuta a soluzioni difformi. Intervenuta sul punto, la Corte costituzionale si è limitata ad affermare che la condotta di ogni persona deve essere improntata ad un ragionevole «dovere inderogabile di buona fede e di solidarietà cui i cittadini sono tenuti» (Corte cost. 3/12/1993, n. 426, in GI, 1994, I, 432), senza affrontare il tema della collocazione cronologica (precedente o successivo la detenzione ingiusta) della condotta del soggetto, problema che si pone addirittura come preliminare rispetto alla stessa delimitazione del concetto di dolo e colpa grave giacché segna il superamento della tesi che considera valutabili ai fini dell’esclusione del diritto alla riparazione solo condotte “processuali” (Cass. pen., Sez. Un., 27/5/2010, in Mass. Uff., 247664).

Si deve considerare dolosa la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei termini fattuali, ma anche la condotta consapevole e volontaria (Cass. pen., Sez. IV, 22/1/1998, D.R., in Mass. Uff., 210628) che, valutata con il parametro dell’id quod plerumque accidit, sia tale da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’Autorità giudiziaria a tutela della comunità. Così, per Cass. pen., Sez. IV, 3/10/2007, C., in Mass. Uff., 238248, integra gli estremi della colpa grave il comportamento dell’innocente che, alla guida dell’autovettura utilizzata in precedenza per la consumazione di un reato, non ottemperi all’ordine di fermarsi impartitogli dalle forze dell’ordine e si dia alla fuga.

Mutuando il concetto dall’art. 43 c.p., deve ritenersi colposo il comportamento cosciente e volontario di chi per negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti norme disciplinari, crea una situazione tale da dare una non voluta – ma prevedibile ed evitabile (Cass. pen., Sez. III, 18/2/2010, in Mass. Uff., 246063; Cass. pen., Sez. IV, 23/10/2008, in Mass. Uff., 242304) – ragione di intervento dell’Autorità giudiziaria con l’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale (Cass. pen., Sez. III, 12/5/2010, in Mass. Uff., 247631, esclude il diritto ad equa riparazione per l’ingiusta detenzione, il comportamento cosciente e volontario della persona prosciolta cui sia seguito un effetto idoneo a trarre in errore l’Autorità giudiziaria).

La colpa per essere qualificata come grave deve connotarsi per negligenza, imprudenza o trascuratezza macroscopiche e cioè tali da superare il comune buon senso (Cass. pen., Sez. IV, 18/12/2002, E., in Gdir, 2003, 19, 102; Cass. pen., Sez. IV, 24/1/1997, C., in Mass. Uff., 207261). Le condotte colpose concausali possono assumere varie gradazioni, che vanno da quella lieve, purché apprezzabile, a quella grave, idonea ad escludere il diritto all’ indennizzo. Nelle ipotesi diverse dalla colpa grave, la quale soltanto osta al diritto alla riparazione, il comportamento non rimane insignificante, dovendo essere valutato ai fini della determinazione del “quantum debeatur“.

Tanto premesso, nel caso in esame, come anticipato la Corte d’appello aveva qualificato in termini di colpa “lieve” l’aver l’interessato fatto ricorso all’esercizio della facoltà difensiva di non rispondere nel corso dell’interrogatorio. La Cassazione, tuttavia, ha ritenuto che la decisione non fosse conforme al testo della norma ed alla ratio sottesa alla recente modifica apportata all’art. 314 c.p.p. dall’art. 4, comma 1, lett. b) D.Lgs. 8 novembre 2021 n. 188.

Per effetto dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 138/2021, recante “Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”, al comma 1 dell’art. 314 c.p.p. è stato aggiunto il seguente periodo: “L’esercizio da parte dell’ imputato della facoltà di cui all’art. 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione di cui al primo periodo”. Il legislatore ha così inteso adeguare la normativa nazionale alle disposizioni della Direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza.

Con specifico riferimento alla previsione che occupa, si è codificato il valore neutro dell’esercizio della facoltà dell’indagato o imputato di non rispondere alle domande dell’Autorità in interrogatorio e, più in generale, di rimanere silenti nel corso del procedimento. In tal modo si è conferita attuazione all’art. 7, par. 1, della direttiva richiamata, il quale prevede che “Gli Stati membri assicurano che agli indagati e imputati sia riconosciuto il diritto di restare in silenzio in merito al reato che viene loro contestato”; ed al paragrafo 5 del medesimo articolo, in cui si precisa che “L’esercizio da parte degli indagati e imputati del diritto al silenzio o del diritto di non autoincriminarsi non può essere utilizzato contro di loro e non è considerato quale prova che essi abbiano commesso il reato ascritto loro”. Il recepimento di tali principi nel contesto dell’art. 314 c.p.p., con l’aggiunta nel comma 1 dell’ultimo periodo sopra richiamato, consente dunque di affermare come il silenzio serbato dall’indagato o imputato nel corso del procedimento o nel giudizio penale, non solo non sia ostativo al riconoscimento dell’indennizzo per ingiusta detenzione, ma non possa essere validamente considerato ai fini della riduzione del quantum dell’indennizzo, trattandosi di comportamento non qualificabile in termini di colpa lieve.

Da qui, pertanto, l’accoglimento del ricorso.

Riferimenti normativi:

Art. 314 c.p.p.

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